FELICE GIMONDI, L’UOMO CHE ANDÒ A RIPRENDERE IL “CANNIBALE”

Submitted by Anonymous on Wed, 09/29/2021 - 11:03
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Redazione
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«Ancora più solo di prima c’è già il “Cannibale” in cima, ed io che devo andare a prenderlo»
. Non è difficile capire chi fosse il “Cannibale” e che fosse l’io della canzone di Enrico Ruggeri. Eddy Merckx. Gli appassionati lo sanno bene, perché Felice Gimondi quel “Cannibale” in un modo o nell’altro lo è andato a prendere spesso, anche se spesso s’è dovuto accontentare di affiancarlo senza mai riuscire a superarlo. Eppure nei cuori di chi ama il ciclismo un posto speciale “Nuvola Rossa” (soprannome coniato da Gianni Brera) l’ha conquistato senza bisogno di dover chiedere nulla a nessuno. Un’icona del ciclismo nazional popolare, probabilmente il primo grande eroe italiano delle due ruote dai tempi di Coppi e Bartali, capace di mettere le mani su un Tour de France a soli 22 anni (e per di più all’esordio) e di traghettare il mondo dei pedali verso un decennio di profonde trasformazioni, con l’arrivo incombente di Merckx e quello del tandem Moser-Saronni che avrebbe nuovamente infiammato i cuori degli appassionati italiani.

IL DESTINO DI UN PREDESTINATO

Felice Gimondi è figlio della val Brembana. Nasce a Sedrina durante la Seconda Guerra Mondiale e deve tanto, anzi tantissima alla mamma Angela, che di mestiere fa la postina ed è l’unica in paese a destreggiarsi in sella a una bicicletta. La passione il piccolo Felice la eredita in fretta anche dal papà Mosè, che “apre le acque” della sua giovane esuberanza regalandogli la prima bici a 16 anni, una fiammante Ardita color rosso. Le tante trasferte in camion per andare a vedere le corse che si disputano in zona (il Giro di Lombardia è un appuntamento fisso a ottobre) cominciano ad avere un senso: Felice ama la fatica, il ciclismo ben presto diventa più di un passatempo e le gare del fine settimana si trasformano spesso in una piacevole abitudine. Anche perché il piccolo Gimondi vince, quasi mai in volata, quasi sempre staccando gli avversari prima dell’arrivo. È un modus operandi di cui terrà conto durante tutta la carriera: non è veloce negli sprint, allora predilige l’idea di sfiancare i rivali e poi lanciarsi in fuga solitaria. Le buone prestazioni con la Sedrianese, la squadra della città natale, attirano le attenzioni dei tecnici federali, col CT Elio Rimedio che nel 1964 decide di portarlo nella squadra italiana che prende parte al Tour de l’Avenir, considerato alla stregua di un Tour de France per under 23. Gimondi è al primo banco di prova internazionale, ma sbaraglia la concorrenza conquistando la maglia gialla alla prima tappa e conservandola in salita e anche a cronometro. Il pubblico francese è stupito, ma non ha ancora visto niente.

LA GIOVANE “TRIPLA CORONA”

L’anno dopo Felice passa professionista. Lo ingaggia Luciano Pezzi, quello che diventerà anche il patron della Mercatone Uno di Pantani, e lo porta alla Salvarani. La primavera ne lascia intravedere le ottime qualità di finisseur e al Giro d’Italia, che corre in appoggio al capitano Vittorio Adorni, arriva un sorprendente terzo posto. Al Tour si ritrova in squadra perché Battista Babini è infortunato: Adorni, suo compagno di stanza e amico per la vita, gli concede un po’ di libertà nelle prime tappe e Gimondi si prende subito la maglia gialla. La lascerà appena un paio di giorni, salvo riprendersela dopo la cronometro del Mont Revard per poi vincere anche l’ultima tappa sugli Champs Elysees e respingere l’assalto di Raymond Poulidor. A soli 23 anni la carriera del giovane Gimondi è già leggenda, ma nel 1966 arrivano altri trionfi in serie: quello alla Parigi-Roubaix è degno di un ciclismo d’altri tempi (fuga solitaria negli ultimi 40 km), quello al Giro di Lombardia favoloso per la qualità degli avversari, avendo messo in fila nell’ordine Merckx, Poulidor, Anquetil, Dancelli e Adorni. Nel 1967 arriva anche il Giro d’Italia, poi l’anno dopo tocca alla Vuelta a Espana: a 26 anni Gimondi è il primo italiano, nonché il secondo corridore di sempre dopo Anquetil, a conquistare la cosiddetta “tripla corona”, cioè tutte e tre le maggiori corse a tappe del panorama ciclistico internazionale.

LE ULTIME PERLE DELLA COLLEZIONE

Avrebbe ancora una marea di corse da vincere, non fosse per quel “Cannibale” che irrompe dirompente sulla scena. E non a caso nella seconda parte della carriera la piazza d’onore diventerà sovente un’abitudine: Merckx di fatto gli nega la gioia di vincere almeno un altro paio di Giri d’Italia (ma Gimondi s’impone comunque nel 1969, anno della squalifica per doping del belga, e nel 1976) e tante corse di un giorno. Non però il mondiale del 1973, quando sulla collina di Montjuic a Barcellona il corridore bergamasco corona il sogno inseguito da una vita. Mancherebbe una sola perla alla sua collezione, e puntuale arriva nel marzo del 1974 col trionfo (in fuga negli ultimi 25 km) alla Milano-Sanremo. Passato alla Bianchi, Gimondi rimane un avversario durissimo per chiunque, ma negli ultimi anni torna ad essere anche un buon gregario per i compagni. Chiude la carriera con 141 successi e ben 14 partecipazioni al Giro (con 9 podi), record tutt’ora imbattuto. Nella sua seconda vita nel ciclismo riveste il ruolo di diesse alla Gewiss Ballan e poi di presidente della Mercatone Uno. L’Italia lo piange nell’estate del 2019, quando un malore durante un bagno ai Giardini Naxos se lo porta via in pochi istanti, come era solita fare lui quando scattava sui pedali. Oggi avrebbe compiuto 79 anni, ma quelli come lui in realtà vivono comunque in eterno.

(Credits: Getty Images)

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