IL NOBEL A MARTIN LUTHER KING, L'UTOPIA DEI MINERS, L'NBA E LA MLB

Submitted by Anonymous on Thu, 10/14/2021 - 12:47
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Redazione
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Abbattere le barriere è possibile, se solo la gente avesse voglia di andare oltre i cliché. Quelli che nella vita terrena di Martin Luther King non hanno mai trovato posto nelle pure innumerevoli occasioni in cui ha pubblicamente puntato il dito contro coloro che continuavano a ritenere che tra bianchi e neri non potesse esserci alcuna relazione paritaria. E' stato un percorso verso la dignità umana, quello di Luther King - che oggi del 1964 venne insignito del premio Nobel per la Pace - di cui ancora oggi si avverte forte il grido nonostante dal lontano 4 aprile 1968 - giorno in cui l’attivista, pastore e politico originario di Atlanta venne brutalmente assassinato - siano trascorsi più di 50 anni. Anche lo sport, con il forte potere evocativo e la capacità di arrivare al cuore della gente, ha contribuito negli anni a rendere quanto più prossimo e meritevole di attenzione il messaggio pacifista di King. Che aveva ben compreso quanto quel mondo, fatto sì di professionismo e competizione ma, in primo luogo, di donne e uomini evidentemente inseriti nei rispettivi contesti comunitari, fosse in grado di veicolare messaggi trasversali.

L’UTOPIA DEI TEXAS WESTERN MINERS DEL 1966

Il basket è forse la disciplina che più di ogni altra ha saputo traslare lo spirito e la forza dell’opera di Martin Luther King. Con un punto di non ritorno avvenuto nell’inverno del 1966, quando l’America venne messa di fronte a un evento mai accaduto prima: il trionfo di una squadra interamente composta da afroamericani del titolo NCAA, il più importante e prestigioso torneo universitario di pallacanestro. L’impresa fu compiuta dai Texas Miners, la formazione del Texas Western College di El Paso, allenata dal bianco Don Haskins il quale, l’estate prima, quando dovette assemblare la formazione con cui partecipare al campionato statale, decise di affidarsi a diversi giocatori neri. Li riteneva bravi e meritevoli di fiducia sebbene, in una terra come il Texas, profondamente conservatrice e ostile nei confronti degli afroamericani, venne vissuto alla stregua di un affronto. Haskins tirò dritto per la sua strada: reclutò i migliori prospetti e formò una squadra mai vista prima nella storia del college basketball: 7 giocatori di colore e 5 bianchi. Haskins ammirava l’opera di Martin Luther King: al di là dell’aspetto sportivo, la decisione di affidarsi a così tanti giocatori di colore si legava in maniera indissolubile alla battaglia per i diritti degli afroamericani. Sul campo i Miners, con i loro “Seven Niggas”, cominciarono a vincere, in barba a chi li riteneva solo fortunati: 23 vittorie di fila, a El Paso, se le sognano ancora oggi. Eppure, in ogni palazzetto venivano accolti a suon di insulti dai tifosi locali. Col tempo le vittorie garantirono il rispetto che i Miners non avevano ricevuto in precedenza: la trionfale marcia si concluse con il lieto fine la sera del 19 marzo 1966, quando nella finale del torneo nazionale Texas vinse contro Kentucky. Haskins quella sera andrò oltre: per rispondere all’ennesimo episodio razzista, avvenuto il giorno precedente, il coach decise di giocarsi la finale utilizzando solo i 7 giocatori di colore. Bobby Joe Hill firmò 20 punti e fu l’MVP di una notte magica, ancora oggi ricordata più per il significato simbolico che per la vittoria dei Miners.

QUEL LEGAME COSÌ PROFONDO CON L’NBA

Ancora oggi il legame tra la palla a spicchi e l’eredità di King è forte. Tanto che in NBA gennaio è il mese dedicato agli atleti neri, che culmina nel terzo lunedì del mese in occasione del MLK Day, quando il calendario delle partite propone alcuni tra gli appuntamenti più attesi dell’intera stagione (spesse volte il rematch della finale dell’anno precedente). Capita anche che alcune squadre decidano di promuovere abbigliamento ed eventi tematici, come fatto dagli Atlanta Hakws con una divisa speciale (interamente nera e con le iniziali MLK sul petto) che è stata inviata persino in Vaticano, richiesta da papa Francesco, che ha voluto benedirla e pregarci sopra nel ricordo del pastore della Georgia. Dal giorno in cui venne assassinato King, nel mondo del basket americano la percentuale di neri è salita dal 5% all’attuale 80%. E molti ritengono che sia stato anche per merito del suo attivismo.

IL BASEBALL, IL PRIMO AMORE DI MLK

Va da sé che da giovane King fu un discreto giocatore di baseball e quel mondo fu debitamente sconvolto il 4 aprile del 1968, quando arrivò la notizia dell’omicidio del pastore. Mancavano pochi giorni all’inizio della stagione e la lega ebbe i suoi problemi a contenere la protesta e la rabbia dei giocatori di colore. L’allora commissioner Eckert non prese posizione: saranno le squadre, sentiti i loro giocatori, a decidere se rimandare le proprie partite o se scendere sul diamante. Ne vien fuori una visione frastagliata del mondo americano dell’epoca: Pittsburgh, che ha ben 11 giocatori di colore, annuncia di non voler giocare. In altre città la tensione è alle stelle e gli scontri tra bianchi e neri divampano in ogni angolo. Alla fine l’MLB decide di rimandare il via della stagione di due giorni, dall’8 (giorno dei funerali di King) al 10. Sarà una stagione tribolata, peraltro intrecciata all’altro omicidio celebre di quell’anno: il 4 giugno 1969 Robert Kennedy, candidato alla Casa Bianca, viene assassinato per mano di un arabo cristiano che lo riteneva responsabile per aver dato appoggio a Israele nella “Guerra dei Sei Giorni”. Kennedy quella sera aveva conosciuto e ringraziato dal palco Don Drysdale, leggenda del Los Angeles Dodgers, che aveva appena realizzato grazie ai suoi lanci una striscia di 6 gare senza concedere un solo punto ai battitori (record tutt’ora imbattuto). È un altro episodio drammatico che in qualche modo finisce per mescolarsi alla lotta di MLK.

GLI SFORZI (NON SUFFICIENTI) DEL CALCIO

Più recentemente, nel 50esimo anniversario del celebre discorso “I have a dream” pronunciato nel 1963, anche il mondo del calcio italiano ha voluto ricordare l’attivismo del pastore della Georgia: campioni del calibro di Buffon, Pirlo, Chiellini, Reina, Candreva e altri ancora prestarono la loro voce per rileggere i punti salienti del discorso, dando uno spunto per riflettere su quanto il razzismo ancora oggi sia parte integrante del mondo del pallone. Un lascito che, a leggere le cronache degli ultimi giorni (emblematico il caso di Firenze, con insulti rivolti a Koulibaly), sembra non essere stato ancora del tutto recepito da chi si professa appassionato di sport, ma evidentemente senza comprenderne appieno la sua essenza più profonda.

(Credits: Getty Image)

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