STEVEN BRADBURY, LA FAVOLA DI UN SURFISTA PRESTATO AL GHIACCIO

Submitted by Anonymous on Thu, 10/14/2021 - 19:03
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Redazione
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Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sognato di essere Steven Bradbury. Perché saranno belle le vittorie sudate, quelle che tolgono ore di sonno e richiedono sforzi talvolta oltre i propri limiti. Ma vuoi metterle al confronto con quelle che arrivano quasi per caso, dove il merito più grande è farsi trovare pronti al posto giusto nel momento giusto? A conti fatti, chi le snobba è solamente invidioso. E magari non sa che Steven Bradbury, l’australiano capace di salire sul gradino più alto del podio nella finale dello short track ai Giochi Olimpici di Salt Lake City 2002, al di là di quel rocambolesco successo in vita sua ne ha passate talmente tante che quella altro non era, se non la giusta e agognata ricompensa per una vita vissuta sempre dall’altra parte della barricata. Perché a lui le cose semplici non sono mai piaciute. E non è vero che non fosse bravo: prima che un infortunio per poco non se lo portasse via (non dalle competizioni, ma proprio da questa vita terrena), gli avversari dovevano faticare e non poco per metterselo alle spalle. Tutto il contrario del Mar Rosso che si spalancò davanti ai suoi occhi in quella incredibile e per certi versi irripetibile finale del 2002. Quando la vita s’è ricordata di saldare quel credito che Steven aveva contratto tanti anni prima.

QUEL MALEDETTO SANGUE SULLA PISTA

Già pensare che un australiano possa andare forte sul ghiaccio è un concetto difficile da decodificare. Chiaro però che a Bradbury, nato il 14 ottobre 1973 a Camden, sobborgo di Sydney, le cose semplici e scontate non sono mai andate troppo a genio. È lui a imbarcarsi verso il Nord America alla ricerca di quegli insegnamenti che lo porteranno, a soli 21 anni, a diventare uno dei migliori interpreti dello short track a livello planetario, con la medaglia di bronzo conquistata con la staffetta a Lillehammer nel 1994 (e altre tre medaglie nella stessa gara conquistate ai mondiali di inizio decennio) a certificare la sua bravura. Il suo carattere scanzonato lo porta inoltre a diventare ben presto un personaggio facilmente riconoscibile all’interno del mondo del pattinaggio velocità, tale da farlo sembrare un surfista prestato alla pista del ghiaccio. Quell’orizzonte fatto di sorrisi e buoni propositi viene però stravolto pochi mesi dopo il bronzo olimpico, quando durante una gara di Coppa del Mondo, complice una caduta, la lamina del pattinatore canadese Fredric Blackburn gli recide l’arteria femorale. Bradbury vede la morte in faccia: perde quattro litri di sangue e arriva in ospedale in condizioni disperate, subito sottoposto a un faticoso intervento di saturazione (ben 111 punti) con annesse trasfusioni. L’infortunio lo tiene fuori dalla pista un anno e mezzo, ma quando torna il divario con la concorrenza è esagerato. A Nagano, nel ’98, non va oltre la 20esima piazza assoluta, e l’unico guizzo degno di nota è un ottavo posto ai mondiali di Sofia del 1999. Quando poi nel 2000 in allenamento si frattura il collo, costretto a tenere per 6 settimane il collare ortopedico, la diagnosi (impietosa) del mondo del pattinaggio è presto fatta: a 27 anni per Bradbury è già giunta l’ora di appendere i pattini al chiodo.

CONTRO PRONOSTICO, CONTRO IGNI LOGICA

Se c’è una cosa che gli australiani detestano è sentirsi dire ciò che devono fare. Sono un popolo dalla pellaccia dura, abituato a soffrire e ad arrangiarsi, anche nelle situazioni apparentemente più complicate. Cosa volete che importasse a Steven di stare a sentire tutti quei commenti degli addetti ai lavori, che già gli suggerivano dei reinventarsi dopo aver chiuso la sua carriera agonistica.

 

“In Australia degli sport invernali non importa a nessuno, secondo le statistiche già non sarei mai dovuto scendere in pista. E dopotutto sono abituato a lottare per i miei obiettivi: per tanto tempo mi allenavo e facevo un secondo lavoro per mantenermi. Di cosa dovrei avere paura, decidendo di tornare a competere per puntare alle Olimpiadi?”.

 

Salt Lake City, nel 2002, rappresentano dunque il ballo finale, il teatro dell’ultima grande impresa. Lo deve a se stesso, lo deve a quelli che l’hanno sostenuto e non gli hanno fatto mai pesare il fatto di non essere più stato il Bradbury degli anni migliori, complice quel maledetto infortunio. Ai Giochi i riflettori nella gara dei 1000 metri sono puntati su tutt’altri atleti: Ohno, Turcotte, Li Jiajun, Gagnon e il coreano Ahn Hyun-Soo puntano a monopolizzare il podio, ma il destino ha in serbo sorprese. Non nella batteria dei quarti dove corre l’australiano, che arriva terzo alle spalle dei favoriti Ohno e Gagnon. Quest’ultimo però viene squalificato e consente a Bradbury di accedere alla semifinale, dove il pronostico non pende certo dalla sua parte. I rivali lo staccano sin dai primi giri, lui è destinato a tagliare per ultimo il traguardo, ma una maxi caduta all’ultimo giro e la conseguente squalifica di Terao fanno si che sia proprio Steven a vincere la batteria, qualificandosi per la finale. Dove i commentatori già ironizzano sul fatto che saranno in 4 a giocarsi le medaglie, considerando l’australiano fuori da qualsiasi lotta. Ancora una volta, dovranno fare ammenda per i loro calcoli sbagliati.

CONSEGNATO ALLA LEGGENDA


“A volte il vincitore è un sognatore che non ha mai mollato”.

Questa frase Bradbury la pronuncerà in conferenza stampa, dando sfogo a tutte le emozioni represse dopo aver sentito risuonare le note dell’inno sul podio olimpico. Passerà in rassegna tutta la sofferenza provata nei precedenti 8 anni, arrivando ad affermare che ciò che la sorte gli aveva riservato non era fortuna, ma la ricompensa per tutto il dolore provato. La finale, come previsto, sarà l’ennesimo romanzo inatteso: Steven parte male, dirà in seguito che la sua era l’unica tattica possibile, perché non poteva far altro che sperare in una caduta generale e avventarsi poi su una medaglia come un avvoltoio sulla preda. Alla penultima curva i suoi propositi sono lungi dal manifestarsi, poi Jiajun tenta di superare Ohno lo fa cadere, trascinando dietro di sé anche Turcotte e Ahn. Schizzano via sul ghiaccio senza controllo, con Bradbury che da lontano osserva interessato la scena. Capisce che il destino gli aveva dato appuntamento in quell’ultima curva: lui bada solo a non toccare nessuno dei rivali, poi una volta superati guarda verso la tribuna e comincia a sorridere, incredulo ma non troppo. Sapeva che qualcosa sarebbe potuto succedere. Era la sua tattica. E ancora una volta s’era rivelata vincente. L’espressione “Doing a Brabdury” (“Fare un Bradbury”), utilizzata per descrivere un evento inatteso e imprevisto, lo ha consegnato definitivamente alla leggenda.

(Credits: Getty Image)

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