GIGI MERONI, LA “FARFALLA GRANATA”: UN MITO SENZA TEMPO

Submitted by Anonymous on Fri, 10/15/2021 - 12:43
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Redazione
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Gigi Meroni aveva 24 anni quando il suo cuore ha smesso di battere. Ma Gigi Meroni avrà 24 anni per sempre, perché come diceva Guccini,

“gli eroi sono giovani e belli”.

Definizione che calza a pennello per la “Farfalla Granata”, il numero 7 che ha incantato la Torino del pallone molti decenni prima di quanto abbia potuto fare (peraltro sulla sponda opposta della Mole) colui che del marchio CR7 ne ha fatto un impero. A Gigi, che molti arrivarono a definire alla stregua del “Beatle Italiano”, la fama interessava relativamente. Era un ragazzo come tanti, ma che usava solo e soltanto la sua testa per sopravvivere alle inquietudini di una generazione che aveva capito che era ora di cambiare. Estroso sul campo, quanto nella vita di tutti i giorni. Quella vita che lui ha saputo vivere a modo suo, senza etichette, senza regole apparenti, ma in fondo le regole lui le conosceva, solo che erano quelle che decideva di dettare lui. Sempre alla moda, sempre controcorrente, mai per vanità o per piacere agli altri: Gigi era uno spirito libero, che ha conosciuto la morte troppo presto.

LA RIVOLTA DEGLI OPERAI DELLA FIAT

Limitarsi a raccontare il calciatore ha poco senso. Va da sé che Meroni, in campo, ci sapeva fare: ala destra vecchia maniera, ma con interpretazione assai moderna del ruolo, saltava avversari come birilli ed eccelleva nel dribbling, infiammando con le sue giocate i cuori del “Filadelfia”. Era dai tempi del Grande Torino che la sponda granata del capoluogo piemontese non si innamorava così perdutamente di un suo figlio prediletto. Gigi invero sotto la Mole ci arrivò quasi per caso: rimasto orfano di padre a soli due anni, costretto a un’infanzia mica semplice, tirando a campare col salario della mamma Rosa e la necessità di provvedere ad altri due fratelli, trovò nel calcio una valvola di sfogo dai cattivi pensieri. Il Genoa se ne innamorò perdutamente affrontandolo quando Meroni vestiva la maglia del Como, la squadra della sua città. E nei due anni vissuti con addosso lo stemma del grifone il giovane Gigi, nemmeno 20enne, si fece conoscere e apprezzare da tanti addetti ai lavori. Quando il Torino, nell’estate del 1964, bussò alla porta dei rossoblù, mettendo sul piatto 300 milioni di lire (per un giocatore di 21 anni era una cifra mai vista prima), nel quartiere di Marassi scoppiò una rivolta popolare. Il tecnico genoano Santos provò a convincere la dirigenza e non cedere il giocatore, ma tornando a Genova nel disperato tentativo di trattenerlo si scontrò contro un albero e perse la vita. L’allora presidente granata Orfeo Pianelli, invece, sapeva che acquistandolo così giovane avrebbe potuto farci una fortuna rivendendolo qualche anno dopo. Ma Meroni, al quale dei soldi poco importava, aveva altri progetti in testa. E la tifoseria granata se ne innamorò a tal punto da evocare qualsiasi tipo di rivolta in caso di cessione. Così, quando la Juve si presentò con un’offerta di 750 milioni di lire (e Pianelli era pronto a dire di si), negli stabilimenti Fiat del Lingotto gli operai bloccarono la fabbrica, facendo sapere al loro datore di lavoro (cioè  alla famiglia Agnelli, proprietaria della Juventus) di essere disposti a tutto, pur di non veder salpare il loro numero 7 verso gli odiati rivali cittadini.

IL FIGLIO PREDILETTO DEGLI ANNI ‘60

Quella tra Meroni e il Torino fu una storia d’amore degna dei migliori anni ’60. Sul campo i colpi di genio si sprecavano, come il pallonetto che mise fine all’imbattibilità della Grande Inter di Helenio Herrera nel marzo del 1967. Fuori dal campo Gigi era una star, anche se lui amava starsene per i fatti suoi, magari a creare pantaloni e cravatte (il primo lavoro da adolescente), dipingere quadri o trascorrere le giornate assieme all’adorata Cristiana, la donna della sua vita, la quale però, essendo sposata, ed essendo ancora proibito il divorzio dalla legislazione dell’epoca, rappresentava motivo di scandalo nell’Italia molto conservatrice dell’epoca, prefigurando una relazione extra coniugale. Leggendarie poi erano le passeggiate con la gallina al guinzaglio, con Meroni che amava ripetere a chi si stupiva di tutto ciò che in fondo per lui una gallina valeva tanto quanto un cane (e più tardi ci porterà anche una capra). La capigliatura in stile Beatles ne fece un’icona e un personaggio amato anche da chi di calcio ne masticava assai poco. Era il simbolo della gente comune, di una tifoseria non più abituata ai grandi palcoscenici, di un’epoca nella quale i sogni potevano davvero prendere vita. Quei sogni che la sera del 15 ottobre 1967, poche ore dopo la vittoria per 4-2 ottenuta sulla Sampdoria, andarono in frantumi per sempre.

LA TRAGEDIA E LA “PROMESSA” DI COMBIN

Gigi non aveva le chiavi di casa con sé e si fermò in un bar a chiamare Cristiana 8che era da amici) per avvertirla della cosa. Assieme al compagno di squadra Fabrizio Poletti attraversò fino a metà la carreggiata stradale, ma sopraggiungendo una macchina fece un passo indietro, senza accorgersi che dal senso opposto ne stava sopraggiungendo un’altra. Al volante del mezzo, una Lancia Appia, c’era il giovane Tilly Romero, studente di famiglia benestante, grande tifoso granata, peraltro destinato nel 2000 a diventare presidente del Torino prima dell’avvento di Cairo. L’impatto fu duro ma a rivelarsi fatale fu un secondo scontro, quello appunto con la precedente auto proveniente dall’altro senso di marcia: Meroni venne trascinato per 50 metri e trasportato d’urgenza all’ospedale Mauriziano da un passante, che subito lo riconobbe e cominciò a urlare dalla disperazione. I danni riportati erano troppo grandi per pensare di salvare Gigi, che si spense in tarda serata. Torino, non solo quella di fede granata, piombò nel lutto. Una settimana dopo in calendario c’era il derby con la Juventus: la numero 7 venne ereditata da Alberto Carelli, che in un pomeriggio di rara commozione realizzò l’ultimo dei 4 gol con il quale il Toro di Edmondo Fabbri batté i cugini a domicilio. Le altre tre reti le segnò Nestor Combin, attaccante argentino che la settimana prima alla Samp aveva riservato lo stesso trattamento. “Avrei potuto tenermi qualche gol per la Juve”, disse al termine della gara con i blucerchiati.

“Tranquillo, ne segnerai altri tre domenica prossima”

gli disse Meroni. Furono le ultime parole che i due scambiarono nello spogliatoio, prima di prendere la via di casa. Combin mantenne la promessa, ma scoppiò a piangere come non aveva mai fatto prima. Perché la farfalla era volata in cielo, e sulla terra nessuno era pronto ancora a dirgli addio.

(Credits: Getty Image)

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