GARRINCHA, I DRIBBLING, L'ALCOL E GLI OCCHI GIà SPENTI DA UN PEZZO

Submitted by Anonymous on Thu, 10/28/2021 - 19:28
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Redazione
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C’è un uccellino che passa di ramo in ramo, saltellando in cerca di qualche insetto da mettere sotto al becco. Esemplare minuto e dall’aspetto gradevole, a una giovane brasiliana ricordava tanto il suo fratellino. Che a sua volta era solito saltellare da una parte all’altra della casa, tanto da meritarsi il medesimo appellativo dell’uccellino. Garrincha, del resto, è più semplice da pronunciare e da ricordare rispetto a Manoel Francisco dos Santos. Curioso semmai è sapere che da una sessantina e passa d’anni, all’udire quel nome, nessuno pensi più al volatile, piuttosto a un’ala destra che al netto di una vita fatta di assoluta sregolatezza e dissolutezza ha saputo incidere a caratteri cubitali la sua firma nella storia del calcio, brasiliano come mondiale. Sinonimo di estro e fantasia, di dribbling fantasiosi e di giocate illuminanti, di qualità e divertimento unite nello stesso medesimo gesto. Che poi, se uno scavasse un po’ più in profondità, si accorgerebbe che tutto questo non faceva parte del piano. Perché se hai una gamba più corta dell’altra è difficile che fare il calciatore diventi il tuo mestiere. Te lo senti ripetere a ogni angolo della strada e a ogni visita medica con il professore di turno. Ma Garrincha non era fatto per seguire le regole. A lui piaceva scriverle, dettarle. E a quanto pare, sapeva pure farle rispettarle.

STORPIO, SCOMPOSTO MA INAFFERRABILE

Prima di Pelè, la terra carioca era ai piedi di Manè. Nato a Magè, in piena foresta amazzonica, il 28 ottobre 1933 da una famiglia in cui la mamma tirava la carretta e il papà si dilettava nei bar del villaggio. La storia dirà che il giocane Manè finirà per rincarnarne fatalmente le orme, ma da piccolo toccò a lui andare a lavorare in fabbrica per aiutare la famiglia a sbarcare il lunario. Solo che quando vedeva rotolare una palla, di colpo quel che accadeva intorno non aveva più importanza. E la colpa di tutto ciò è da imputare anche alla stessa azienda tessile nella quale lavorava: la squadra amatoriale della fabbrica lo promosse titolare a soli 15 anni, lui fece capire da subito che in realtà era sprecato (eccome se lo era) per restare confinato in quel campetto di Pau Grande. Eppure i grandi club diffidavano quando lo vedevano un po’ zoppo e con la postura decisamente scombinata. Vasco da Gama e Fluminense preferirono glissare, non il Botafogo che lo portò nella squadra riserve fino al giorno in cui, durante un allenamento, il grande Nilton Santos, terzino della nazionale, se lo ritrovò davanti e non riuscì proprio a trovare il modo per arginare la straordinaria vivacità. La leggenda narra che fu proprio lui ad andare dai dirigenti a dire che sarebbero stati pazzi a non metterlo sotto contratto. Quando di mezzo ci vanno racconti di calcio brasiliano, è difficile capire cosa sia reale e cosa sia frutto della fantasia dell’uomo. Garrincha poi, amante dei dribbling in campo e nella vita, non faceva certo eccezione. Sta di fatto che al Fogao decidero di dargli una chance. Non se ne sarebbero pentiti.

IL TEST CHE AVREBBE DOVUTO PROIBIRGLI IL MONDIALE

A proposito di leggende: c’è chi giura di aver sentito per la prima volta gridare “Olè” dagli spalti proprio per incensare una delle tante giocate funamboliche di Manè. Che le cose migliori sul rettangolo verde le fece fino intorno ai 30 anni, ammantando la sua aurea leggendaria con i due titoli mondiali conquistati con la Seleçao nel 1958 e 1962. In Svezia, invero, fece anche dell’altro: donnaiolo incallito, con già 8 figli a carico dalla prima moglie e due dalla seconda compagna, tra una pausa e l’altra del ritiro pensò bene di mettere incinta pure una ragazza scandinava (a fine vita arriverà a contare 14 figli, ma senza frequentarne praticamente alcuno). Quel mondiale peraltro neppure avrebbe dovuto giocarlo: nei test psicofisici prima della partenza per l’Europa, stando ai risultati raccolti Garrincha risultò essere al di sotto degli standard richiesti. Il CT Feola se ne infischiò e lo portò via, ottenendo in cambio prestazioni di livello assoluto che unite a quelle di Pelè portarono il Brasile a conquistare la prima Coppa Rimet della sua storia. Addirittura in patria c’è chi esaltò di più Manè rispetto al giovane compagno, ritenendolo il vero artefice del trionfo. Con ‘O Rey in realtà il rapporto non fu mai conflittuale: giocarono insieme 35 gare in nazionale, e non uscirono mai battuti dal campo. Lo stesso Garrincha ha sporcato la sua media con la Seleçao solo all’ultima curva, perdendo appena una gara delle 50 giocate (1-3 con l’Ungheria ai mondiali del 1966).

LA RIMET VINTA DA LEADER

Nel 1962, nonostante in molti non avrebbero voluto al mondiale cileno, sempre Feola si tappò le orecchie e non volle sentire ragioni. L’infortunio di Pelè mise Garrincha ancor più sotto i riflettori, investendolo di un ruolo di leader conclamato. Una missione che Manè portò a termine con successo firmando 4 reti e garantendo assist a iosa ai compagni. Di quel mondiale rimane anche un giallo, anch’esso consegnato alla leggenda: in semifinale Garrincha venne espulso, e come tale avrebbe dovuto saltare la finalissima per squalifica. Ma il motivo del rosso fu imputabile alle continue provocazioni dei giocatori cileni (ne sanno qualcosa anche in Italia…), tanto che il guardalinee che indusse l’arbitro a estrarre il cartellino rosso, segnalando il più classico fallo (o calcione) di reazione del brasiliano, non venne neppure ascoltato in commissione, tali erano le pressioni per riabilitare Manè e fargli disputare la finale con la Cecoslovacchia, nella quale invero fu condizionato dalla febbre, ma dove riuscì comunque a garantire un valido apporto. Le sue prestazioni convinsero molti club italiani a sondare il terreno per portarlo in Serie A, ma alla fine non se ne fece nulla, poiché fuori dal campo l’uomo era già scollegato del tutto dal calciatore, oltre che da se stesso.

IL DRIBBLING MANCATO

La vita di Garrincha, in fondo, è stata sempre costellata di dribbling e finte, qualunque fosse l’ostacolo da aggirare. Si destreggiava bene tra un bar e l’altro, oppure tra un hotel e l’altro con la fanciulla di turno. Finì sul lastrico ripetutamente, anche quando s’innamorò perdutamente di Elza Soares, conosciuta nel 1961 e rimasta per più di un decennio al suo fianco, tanto da portarlo a vivere in Italia alla fine degli anni ’60 pur di aiutarlo a ritrovare la sua anima. L’alcolismo fu un avversario al quale Manè non seppe mai scappare via con una delle sue finte d’annata: faceva avanti e indietro dalle cliniche per provare a disintossicarsi, ma ogni volta ricadeva negli stessi errori. E anche gli amici che provarono a riabilitarlo e a sostenerlo (su tutti Nilton Santos) alla fine dovettero arrendersi. Degli ultimi anni di vita restano le immagini sbiadite di un uomo dallo sguardo perduto in chissà quale orizzonte, occhi spenti che testimoniavano una sofferenza immane dalla quale non sarebbe più riuscito a rialzarsi. Morì in misera, ospite delle periferie delle città brasiliane, lontano anni luce da quei riflettori che ne hanno raccontato le gesta e tramandate ai posteri. Il 20 gennaio 1983 l’ennesima notte brava gli costò la vita, ma in fondo Garrincha se n’era già andato da un pezzo. Poteva finalmente saltellare da un ricordo all’altro, memore di un tempo in cui in tanti (e forse pure a ragione) lo consideravano più forte di Pelè.

(Credits: Getty Image)

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