PASOLINI, IL BOLOGNA DI BULGARELLI E I PUGNI DI CARLOS MONZON

Submitted by Anonymous on Tue, 11/02/2021 - 19:06
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Redazione
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“Se lei Pasolini non fosse diventato scrittore e regista, cosa avrebbe voluto fare?”.

“Avrei voluto essere un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei più grandi piaceri”.

La domanda di Indro Montanelli celava un segreto di pulcinella: Pier Paolo Pasolini non aveva mai nascosto il suo amore per il calcio, e allora quella risposta parve la cosa più sincera e naturale che potesse esistere. Ma forse non contemplava al suo interno tutta la straordinaria poliedricità di un artista senza tempo, che a distanza di 46 anni dalla morte continua ad essere annoverato come uno dei più grandi letterati del novecento. E che da buon italiano non restava indifferente al fascino dello sport popolare per eccellenza. Ne intuiva la carica agonica, ne carpiva il messaggio capace di raggiungere le folle senza distinzione di classe, né di ceto. Amava il calcio, ma non solo: ciclismo, pugilato e atletica erano allo stesso modo delle valvole di sfogo, dei lidi in cui rifugiarsi quando la vita gli chiedeva un conto troppo salato. Lo stesso che il 2 novembre 1975 lo condusse verso una morte tragica, ancora in buona misura avvolta dal mistero, ma figlia di un male interiore e di inquietudini che ne avevano contraddistinto ogni fase della sua esistenza terrena.

L’AMORE E LA SOFFERENZA PER IL BOLOGNA

Quando ha potuto, il calcio per Pasolini è stato autentico sollievo. Pensare solo a quel magico 1964, l’anno in cui il “suo” Bologna conquistò l’ultimo scudetto nel famoso spareggio di Roma contro l’Inter di Helenio Herrera, fresca vincitrice della Coppa dei Campioni. PPP era innamorato dei colori rossoblù, una passione nata in gioventù quando, sui Prati di Caprara, gli stessi che a inizio secolo videro sorgere la società felsinea, giocava con gli amici ogni qualvolta gli impegni scolastici glielo permettevano. Il calcio divenne qualcosa di più nella vita di Pier Paolo negli anni in cui frequentava la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove si dilettava come ala destra, indossando il numero 16 e restando impresso nell’immaginario collettivo dell’epoca come un giocatore rapido, versatile, non dotato di tecnica sopraffina, ma comunque capace di tenere deste le difese avversarie. E quando poteva non si perdeva una partita della sua squadra del cuore. Arrivando persino a marinare la scuola, come nel 1937, appena 15enne, quando andò ad accogliere alla stazione i giocatori rossoblù di ritorno dalla trasferta dell’Expo di Parigi contro il Chelsea, teatro della vittoriosa battaglia nella Coppa Internazionale, quasi una antesignana della Coppa dei Campioni.

BIAVATI, BULGARELLI E LA CURVA SUD

Amedeo Biavati, campione del mondo nel 1938 e bandiera del Bologna negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale (64 reti in oltre 200 apparizioni), fu l’amore calcistico della sua vita. Ma i campioni d’Italia del 1964 ebbero a loro volta un posto speciale nel cuore di Pasolini, con Giacomo Bulgarelli uomo simbolo di quella squadra che Fulvio Bernardini condusse fino alla conquista del tricolore. Proprio Bulgarelli strinse una bella amicizia con l’intellettuale, tanto che quest’ultimo gli propose persino di recitare una parte nel “Decamerone”, proposta rifiutata dall’allora capitano rossoblù. Quando la vita portò Pasolini a trasferirsi a Roma, impegnato nei campetti di Regina Pacis o in mezzo alle case popolari, in un modo o nell’altro anche la società giallorossa divenne parte integrante dei suoi racconti. Così, dalle poesie che decantavano la visuale della collina di San Luca dalle tribune del Dall’Ara, l’artista passò a raccontare vizi e virtù del tifoso della capitale, tanto da vivere persino un derby in Curva Sud, provando a narrare uno spaccato di socialità dell’epoca ancora oggi tanto attuale e sorprendente. Non fu mai tifoso della Roma, ma non è azzardato definire che avesse una simpatia per quella squadra. Forse perché spinto da una passione per il calcio alla quale non poteva resistere, e che raccontò in modo mirabile facendo vedere come, mentre chiese e teatri andavano lentamente svuotandosi, gli stadi stavano diventando qualcosa in più di un semplice punto di ritrovo dove assistere a una partita. Un luogo dove “22 sacerdoti laici” proponevano ogni domenica l’ultima rappresentazione sacra del tempo.

LA VOGLIA DI SENTIRSI ANCORA BAMBINO

Pasolini amava il calcio, e il calcio in fondo non lo ha mai dimenticato. Ma forse sarebbe meglio dire che amava lo sport: nel 1960 fu inviato ai Giochi Olimpici di Roma, nei quali offrì la sua visione delle cose a partire dalla cerimonia d’apertura, raccontata dalla storia che ogni singola bandiera dei paesi che sfilavano portata con sé. Amava il ciclismo, perché sport alla portata di tutti, dove non c’erano biglietti da pagare ma solo una passione sfrenata da offrire ai corridori, oltre alle innumerevoli discussioni su chi fosse il migliore tra Coppi e Bartali, o tra Motta e Gimondi. E amava anche la boxe, quella che lo portò ad avere una predilezione per Carlos Monzon, il pugile “dannato” che mise di fatto fine alla carriera ad alti livelli di Nino Benvenuti. Percepiva la natura e lo spirito “circense” dello sport, ne restava ammaliato e al tempo stesso lo dava in pasto ai suoi lettori. In realtà, però, era forse un modo per sentirsi ancora giovane. Dacia Maraini disse:

“Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta all’indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato”.

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