ALESSANDRO DEL PIERO, IL CAPITANO CHE NON HA MAI ABBANDONATO LA NAVE

Submitted by Anonymous on Tue, 11/09/2021 - 14:41
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Redazione
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“Ah, come gioca Del Piero”.

Eh si, caro Maurizio, ancora una volta avevi ragione tu. Ah, come giocava Del Piero. Maledetta coniugazione all’imperfetto. Perché dieci anni (a maggio) sono un tempo infinito per chi ricorda con nostalgia quelle domenica passate alla radio ad aspettare che un boato dal “Delle AlpI” squarciasse la tensione che si respirava ad ogni passo. E quasi sempre all’urlo della folla seguiva la parolina magica: “Ha segnato Del Piero”. Senza dimenticare le notti di Champions, quelle del ‘95 ad esempio, quando un giovanotto con addosso la maglia numero 10 appena ereditata da Roberto Baggio faceva meraviglie, registrando idealmente come marchio di fabbrica quel tiro a giro tornato tanto d’attualità (con i dovuti paragoni) grazie ai gol di Insigne a Euro 2020. Quel tiro, semplicemente, venne ribattezzato alla Del Piero: botta col destro a rientrare, pallone sul secondo palo a scavalcare il malcapitato portiere di turno. Dortmund, Steaua Bucarest e Rangers le prime vittime. Da allora, gloria immortale perpetua. E tristezza al pensiero che siano passati più di 25 anni.

CONTROCORRENTE, MA SEMPRE COERENTE

Perché Del Piero, nato 47 anni fa a Conegliano, in fondo sembra ancora il ragazzino che faceva sognare i tifosi e le teenagers bianconere, e non solo. Vederlo oggi negli spot della tv satellitare di turno fa un po’ tenerezza: il volto è ancora bello vispo, il fisico abbastanza atletico, il capello pettinato d’annata. È sempre perfetto, anche se il verbo giocare da 9 anni si coniuga all’imperfetto. Ha scelto di vivere a Malibù, perché lui il mare in vita sua l’aveva visto poco (a Torino al più puoi vedere le montagne…) e perché negli USA sa bene che di possibilità per i propri figli ce ne sono molte di più rispetto che a quelle di cui potrebbero godere in Italia. Ha aperto una scuola calcio, una catena di ristoranti e gioca anche su più tavoli, perché in fondo Alex nella vita non s’è mai annoiato e ha avuto il bernoccolo per inseguire i propri sogni, oltre che i propri ideali. E non ha avuto paura di alzare la voce quando c’è stato bisogno di farlo: più che controcorrente, Del Piero s’è mostrato sempre coerente con le sue posizioni. Anche quando c’era da andare contro un compagno o il giornalista di turno, che magari lo beccava perché lui aveva talmente abituato bene tifosi e addetti alla comunicazione da far sembrare un momento di appannamento alla stregua di un’apocalisse.

DA PINTURICCHIO A GODOT

Questo essere sempre schietto, molto veneto nella forma e nella sostanza, ha alcuni l’ha reso persino inviso. E quando ha capito che poteva essere più che un peso che una risorsa, semplicemente ha preferito farsi da parte, pur consegnando alla Juve come ultimo regalo il primo scudetto del filotto di 9 titoli consecutivi, segno del dominio del secondo decennio del nuovo millennio. Quella Juve con la quale all’inizio sono state tutte rose e fiori, perché l’esplosione del giovane Del Piero, di ritorno da una proficua esperienza in B al Padova, convinse Trapattoni prima e Lippi poi a dargli una chance. L’avvocato Agnelli lo prese sotto la sua ala, coniando per lui un paio di soprannomi che ben rappresentavano il sentire comune bianconero legato al loro numero 10: quando dipingeva tiri a giro nelle notti europee era Pinturicchio, artista umbro dotato di estro e fantasia. Quando dopo un infortunio al ginocchio faticava a tornare ai suoi livelli divenne Godot, quello che tutti aspettavano, sperando in una nuova rifioritura calcistica. Sfolgorante a dir poco fu l’inizio della storia: fu la sua crescita a convincere la Juve a disfarsi di Baggio nell’estate del 1995, cui seguirà l’annata in cui Del Piero conquisterà la Champions League e poco dopo anche la Coppa Intercontinentale, decisivo con un gol segnato nel finale di partita contro il River Plate. A 22 anni aveva toccato già vette altissime, e altre due finali di Champions, stavolta perse contro Borussia e Real, aumentarono semmai i rimpianti. Sarebbero arrivate però annate dure: le accuse di doping prima (Zeman sospettò di un’anomala crescita muscolare…), gli infortuni muscolari poi, quindi la rottura del crociato a Udine nel giorno del 24esimo compleanno. La morte del padre acuì le sofferenze di un periodo complicato, dal quale Del Piero uscì a fatica solo una volta che Lippi tornò sulla panchina bianconero nel 2001. Lo scudetto conquistato all’ultima giornata contro l’Inter (5 maggio 2002) fu la vera rinascita, seguita dall’ennesima finale di Champions persa contro il Milan l’anno successivo. Del Piero però era tornato al centro del pianeta Juventus. Anche se in arrivo c’era una nuova tempesta.

UN CAPITANO NON ABBANDONA MAI LA NAVE

Calciopoli avrebbe infatti bruscamente interrotto un nuovo ciclo d’oro della Signora, passata nel frattempo nelle mani di Fabio Capello. La Juve in B destò scalpore, Alex però non arretrò di un centimetro: troppo facile mollarla all’inferno come fecero Cannavaro, Ibrahimovic, Emerson, Zambrotta e altri ancora. Lui era un simbolo, era l’iconica dell’ultimo lustro, era il capitano e decise di non scendere dalla nave. Assieme a Buffon, Nedved e Camoranesi accettò l’umiliazione della B, riportando subito la Juve nella massima serie. E due anni più tardi, dopo averla trascinata a suon di gol in Champions (fu capocannoniere in A nel 2007-08 con 21 reti), alle soglie del 34esimo compleanno visse una serata magica al Bernabeu, firmando la doppietta del 2-0 sul Real e godendo di un’emozionante standing ovation del pubblico di Madrid. Il cerchio si stava per chiudere e Del Piero aveva dimostrato al mondo di essere un uomo vero, ancor prima che un grande calciatore. Lo scudetto del 2012 fu il regalo d’addio al popolo bianconero. Col club, nel frattempo, qualcosa s’era incrinato, tanto che da allora le strade di Alex e della Signora non si sono più incontrate.

IL CERCHIO AZZURRO, CHIUSO A BERLINO

C’è però anche l’azzurro a ricordare a tutti quanto Del Piero sia stato grande agli occhi degli italiani. In realtà con la nazionale il rapporto è stato di odio e amore: il flop a Euro ’96 e il deludente mondiale del 1998 furono le avvisaglie di un rapporto tormentato. La concorrenza di Baggio e Totti in azzurro rappresentò un limite, e i due errori nella finale di Euro 2000 contro la Francia (dove sostanzialmente venne accusato di essere il primo responsabile della mancata vittoria) lo misero ancor più all’angolo. L’ennesima spedizione fallimentare ai mondiali del 2002, nonostante il gol segnato al Messico (che evitò all’Italia l’eliminazione al primo turno, cosa che sarebbe comunque avvenuta poi agli ottavi contro la Corea), e l’altrettanto magra figura a Euro 2004 segnarono altre due tappe dolorose. Il feeling con l’azzurro sembrava ormai irrimediabilmente perso, ma nel pieno della tempesta Calciopoli ecco che Del Piero trovò il modo per lasciare un segno nella storia. Lo fece assieme a un gruppo granitico, plasmato da Lippi e capace di sparigliare le carte in un mondiale che doveva essere maledetto, ma che si rivelò alla stregua di un miracolo. Alex nel 2006 non era titolare, ma si ritagliò i suoi spazi e firmò un gol indimenticabile alla Germania, proprio a Dortmund, nello stadio in cui undici anni prima si era rivelato al palcoscenico continentale. La coppa alzata nel cielo di Berlino ripagò tutti gli sforzi e i sacrifici di 10 anni di militanza in azzurro. Aveva chiuso un cerchio, quella sera. E ancora una volta, come la mano del Pinturicchio, fu un cerchio perfetto. Buon compleanno, Capitano.

(Credits: Getty Image)

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