I 115 ANNI DEL TORINO: IL GRANATA CHE HA SEGNATO LA STORIA DEL CALCIO

Submitted by Anonymous on Sat, 12/04/2021 - 16:06
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Redazione
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Come Eva nacque da una costola di Adamo, anche il Toro nacque da una costola della Juventus. Strano, ma vero: proprio gli odiati rivali cittadini, acerrimi nemici di mille battaglia, sono da considerare i padri putativi del sodalizio granata. Accadde tutto nei primi giorni di dicembre del 1906, quando lo svizzero Alfred Dick decise di farla finita una volta per tutte con la Juventus, in aperto contrasto (lui come un altro manipolo di dissidenti) con la politica societaria del club. E trovando un’intesa con i dirigenti della Torinese, altra formazione presente all’epoca all’ombra della Mole Antonelliana, decisero di dar vita a un club tutto loro, ribattezzandolo Foot Ball Club Torino. Una scissione nel vero senso della parola, bagnata da un esordio vincente con la Pro Vercelli nel primo match amichevole della storia granata, datato 16 dicembre 1906. Proprio la scelta del granata si legava a un preciso fatto storico: 200 anni prima, cioè nel 1706, la Brigata Savoia liberò la città di Torino dal dominio dei francesi, e come tratto distintivo i militari indossavano un fazzoletto color granata al collo. Altri storici la raccontano in maniera differente: Dick, fautore della nascita della nuova società, era tifoso del Servette, formazione svizzera dal passato abbastanza glorioso, vestita guarda a caso di granata, colore che volle adottare anche per il Torino. Quale sia la verità, dicendo “granata” ancora oggi si pensa solo e soltanto al Toro.

IL GRANDE TORINO, LA SQUADRA DEI SOGNI

Il fatto che quella squadra, composta in larga misura da calciatori elvetici, s’impose nei primi due derby della storia contro la Juventus fu il segnale che l’intuizione ebbe subito un discreto successo. La società dimostrò di avere basi solide e idee chiare, e pur senza conquistare titoli particolari nei primi due decenni di vita (se si eccettua la Palla Dapples, manifestazione che raccoglieva i club più importanti dell’epoca) si distinse come una delle realtà più interessanti del panorama nazionale. Quando nel 1926-27 conquistò il primo titolo italiano, poi revocato per una vicenda di corruzione legata proprio alla partita con la Juventus, era evidente ormai come i tempi fossero maturi per mostrarsi al mondo come un punto di riferimento per tutto il movimento nazionale. L’anno dopo lo scudetto arrivò per davvero, e non fu solo un caso. Col varo della A a girone unico le abitudini un po’ cambiarono: la Juventus salì in cattedra conquistando titoli a ripetizione, il Toro si consolò con una Coppa Italia nel 1936 prima di entrare nel decennio d’oro del calcio granata, quello che a partire dal 1942 vide una squadra costruita con intelligenza e pazienza dominare in lungo e il largo il campionato italiana. Finita la guerra, comincia la leggenda del Grande Torino di Loik, Gabetto, Mazzola, Bacigalupo e via dicendo. Un collettivo che resta scolpito negli annali, oltre che nella memoria e nel cuore di chi ebbe la fortuna di vederlo giocare. Il “quarto d’ora granata” divenne il momento più atteso della domenica del pallone, anticipato dal gesto rituale di Valentino Mazzola di tirarsi su le maniche. Una storia di trionfi e record a manetta sconvolta il 4 maggio 1949 dallo schianto dell’aereo che riportava la squadra da Lisbona, teatro di una partita amichevole per beneficienza, sulla collina di Superga. Quel giorno se ne andò un pezzo d’Italia, oltre che una squadra formidabile e forse irripetibile. E la storia della Torino del calcio cambiò per sempre.

LA FARFALLA, IL MONDO,  LA SOFFERENZA

Da quel momento è come se il destino avesse deciso di accanirsi contro il Toro. A un decennio duro, gli anni ’50, fece seguito una prima parte di ’60 decisamente più accattivante. Ma quando il talentuoso Gigi Meroni muore in un banale incidente mentre attraversa la strada, sconvolgendo di nuovo il pubblico granata, pare davvero di rivivere un incubo. Mentre la Juventus e le milanesi fanno incetta di scudetti, il Torino vive ancora di ricordi. Ma nella decade dei ’70 riesce comunque a togliersi le ultime grandi soddisfazioni, vincendo due Coppe Italia e soprattutto lo scudetto 1975-76, superando di un’incollatura la Juventus. È il settimo e ultimo tricolore messo in bacheca. Da quel momento in poi le sofferenze andranno sempre ad aumentare, fatte salvo rare eccezioni. Come la clamorosa rimonta nel derby del 1983 (da 0-2 a 3-2 in un quarto d’ora), o il ciclo di Emiliano Mondonico in panchina all’inizio degli anni ’90, con la finale UEFA con l’Ajax (persa per via della regola dei gol segnati in trasferta, oggi andata in soffitta) e una Coppa Italia che rimane a 28 anni di distanza l’ultimo trofeo ufficiale vinto dal club. L’ultimo Toro che ha fatto davvero innamorare e sentire orgogliosi i propri sostenitori è stato quello di Ventura, tornato in Europa e apprezzato per temperamento e proposta di gioco.

UN TIFOSO DIVERSO DA TUTTI GLI ALTRI

Essere torinisti, a sentire i diretti interessati, è qualcosa che poco ha a che vedere col calcio. Un modo di essere, spesso tramandato di famiglia in famiglia, dove il lato aulico e romantico assume ancora un valore preminente. E soprattutto, una fede che non viene intaccata dal risultato, per quanto esso possa rappresentare spesso un limite invalicabile tale da impedire alle nuove generazioni di affezionarsi o innamorarsi di quei colori. Perché se ne decenni passati fu proprio il ricordo e il trasporto legato al Grande Torino ad aver fatto avvicinare tanti ragazzi fino al punto da farli diventare tifosi, oggi questo passaggio di testimone risulta assai più complicato. Il Toro però è qualcosa che va oltre il calcio: è risaputo che in città la stragrande maggioranza della popolazione tifa per il Torino, che era, è e sempre sarà la squadra del popolo, a differenza della Juventus che ha visto fidelizzati tanti sostenitori tra coloro che a partire dal dopoguerra giunsero a Torino e nelle province attigue, emigrando soprattutto dal Sud. Essere del Toro implica sofferenza, tenacia, lotta e carattere: a volte occorre fare i conti con delusioni, umiliazioni, sconfitte che assumono un'importanza relativa e nettamente inferiore rispetto alle modalità che conducono a quelle delusioni e a quelle sconfitte. Ci vuole fegato, oltre che cuore. Ci vuole coraggio, oltre che passione. È una vocazione, e solo chi la sente propria può capire.

(Credits: Getty Image)

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