JOE JOHNSON A BOSTON VENT’ANNI DOPO, CHE LA FAVOLA ABBIA INIZIO

Submitted by Anonymous on Thu, 12/23/2021 - 16:56
Hero image
Autore
Redazione
news date
News di tipo evento?
No

Stai giocando con tua figlia sul divano di casa, festeggiando i suoi 8 anni nel giorno del compleanno, quando devi alzarti e andare a rispondere al telefono che suona. Vedi sullo schermo il numero del tuo agente e pensi che sia uno scherzo, ma siccome sei una persona gentile ed educata rispondi.

Ehi, per caso hai la valigia pronta? Perché a Boston avrebbero bisogno di allungare le rotazioni.

Ti fermi a pensare che si tratti davvero di uno scherzo, poi però cambi espressione quando capisci che no, quella non è una battuta.

Sali sul primo aereo e raggiungimi, qui hanno fretta di vederti al campo.

Il compleanno della figlia è (in parte) rovinato, ma una chiamata dei Celtics vale tutto l’oro del mondo. E Joe Johnson, che a una simile chiamata ormai non pensava da anni, ha capito che era davvero l’ora di mettere due cose in valigia e fiondarsi all’aeroporto. Perché la vita gli stava per concedere una chance inattesa. Visto il periodo, una vera e propria favola di Natale.

DIECI GIORNI PER RIVIVERE UN SOGNO

Per chi mastica NBA come il pane, Iso-Joe non è certo un volto sconosciuto. Già il soprannome tradisce la specialità della casa: tiri in isolamento, il più delle volte mandati a bersaglio. Un talento scovato proprio dai Celtics, che lo scelsero alla numero 10 al draft del 2001, impressionati dal rendimento avuto dalla guardia di Little Rock negli anni passati ai Razorbacks, la squadra dell’ateneo dell’Arkansas. Cosa ha portato Boston a richiamarlo all’ovile a più di 20 anni da quel giorno è presto detto: lo stillicidio imposto dal protocollo Covid, con 7 giocatori costretti a restare fuori perché positivi o perché venuti a contatto con dei positivi, ha obbligato il front office della franchigia del Massachusetts a setacciare il mercato dei free agent e piazzare qualche tassello per allungare la panchina di coach Udoka. A Johnson è stato così offerto un contratto 10-day deal, ossia un accordo della durata di 10 giorni, giusto il tempo di tamponare le falle a livello numerico prima che i 7 giocatori out rientrino dalle rispettive quarantene. Una prassi assai diffusa in NBA, ma che raramente (per non dire mai) contempla giocatori che hanno già superato i 40 anni di età. Perché Johnson è nato il 29 giugno 1981, e benché si fosse tenuto in forma negli ultimi due anni, ormai credeva che la sua unica aspirazione fosse quella di aiutare il figlio a prepararsi per l’ingresso nell’high school. Evidentemente però il destino aveva un altro piano.

SETTE VOLTE ALL STAR, LE FINALS COME UNICO RIMPIANTO

Su quell’aereo Johnson è salito all’istante, e a poche ore dalla palla due della sfida contro i Cleveland Cavaliers (a loro volta rabberciati con 7 giocatori indisponibili, poiché finiti nel protocollo) s’è unito ai compagni, gran parte dei quali non l’hanno neppure mai incontrato su un parquet in tutta la loro carriera. Quei parquet dai quali Joe era assente dall’ottobre del 2019, quando i Pistons decisero di farne a meno dopo averlo messo sotto contratto poche settimane prima del via della stagione. La sua storia è legata principalmente agli Atlanta Hakws, franchigia nella quale ha disputato 508 gare e segnato oltre 10.000 punti tra il 2005 e il 2012, quando la sua presenza all’All Star Game era la regola. In Georgia era sbarcato dopo una buona esperienza ai Suns, che l’avevano prelevato nel febbraio 2002 direttamente dai Celtics. Altre tappe rilevanti della carriera di Johnson sono state Brooklyn (dove Kevin Garnett arrivò a ribattezzarlo “Joe Jesus”, perché quando se ne avvertiva il bisogno in campo “Joe c’era sempre, come Gesù”), Miami, Utah e Houston, con i quali ha disputato l’ultima finale di Western Conference nel 2018 contro i Warriors (ne aveva giocata una nel 2005 a Phoenix, fermandosi poi sempre in semifinale). Detroit, a 38 anni, era sembrato il capolinea naturale di una carriera comunque altisonante, anche se mai impreziosita da una presenza alle Finals. Ma in cuor suo Joe sapeva che qualcosa poteva ancora accadere.

IL JUMPER VECCHIA MANIERA, IL TRIPUDIO DEL TD GARDEN

Ieri notte il TD Garden era davvero tutto per lui. Che già prima di scendere in campo poteva dire di vantare un record invidiato da tutta la lega: è l’unico giocatore della stagione 2021-22 a poter dire di aver giocato contro Michael Jordan (accadde a fine 2001), benché non sia il più vecchio, in quanto a Miami c’è Udonis Haslem (suon compagno di squadra nel 2016) che ha un anno in più, ma che è sbarcato in NBA due stagioni più tardi. E non appena ha messo piede sul parquet, con 2’ scarsi da giocare e il punteggio in cassaforte (Boston avanti di una decina di punti), è diventato il giocatore che è tornato a giocare con la stessa maglia in un lasso di tempo più ampio, cioè a 19 anni e 308 giorni di distanza dall’ultima partita disputata in maglia Celtics (precedente record: James Edwards con i Lakers, 14 anni e 331 giorni). Col pubblico del TD Garden in visibilio, pronto solo a vederlo scuotere la retina. Desiderio esaudito a 23 secondi dalla sirena, quando Joe ha girato intorno a Justin Anderson e lo ha battuto con un jumper, marchio di fabbrica.

Sapevo di essere pronto per giocare qualche minuto, ho sempre saputo che avrei potuto farlo. È un’emozione bellissima, soprattutto perché inaspettata: un’esperienza surreale, passare dalla palestra dove alleno mio figlio di 14 anni al parquet NBA. È la dimostrazione che nella vita bisogna sempre lavorare duro e credere nei propri sogni.

(Credits: Getty Image)

Template News
Post
Fonte della news
SN4P
Sport di Riferimento
Basket