L'ERA DEI CHARLOTTE BOBCATS, L'NBA IN CAROLINA PRIMA DEGLI HORNETS E DI MJ

Submitted by Anonymous on Mon, 01/10/2022 - 16:30
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Redazione
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Quella che ieri notte ha battuto i campioni in carica dei Bucks è la discendente diretta degli Charlotte Bobcats. Che alle linci rosse della Carolina del Nord hanno preferito i calabroni, riprendendosi nel 2014 ciò che la città di New Orleans le aveva sottratto qualche anno prima. Strana storia, quella della franchigia di Charlotte, non certo un big market dell’NBA, ma considerata alla stregua di una delle realtà più longeve della lega. E oggi sotto i riflettori soprattutto perché di proprietà di uno che il gioco l’ha cambiato come nessun altro ha saputo fare prima di lui, esportandolo nel globo e facendolo diventare quello che è oggi, cioè il campionato (probabilmente) più seguito al mondo. Già, perché gli Hornets oggi sono di sua altezza Michael Jordan. Anche se 19 anni fa, quando ancora MJ indossava le scarpe d’ordinanza (a Washington, per la precisione), il mondo dell’NBA fece la conoscenza dei Bobcats.

I GUAI DI SHINN, L’ARRIVO DEL MAGNATE JOHNSON

Charlotte non è mai stata una città di primo piano nell’universo dorato del basket americano. Nata nel 1988, la principale franchigia cittadina non era mai stata capace di andare più in là di una semifinale di conference (nel 1993, nel 1998, nel 2001 e nel 2002), dimostrandosi una realtà incapace di mantenere fede alle attese. E di grandi giocatori, invero, in Carolina del Nord non è che ne fossero transitati chissà quanti: Larry Johnson, Alonzo Mourning e Glen Rice furono le punte di diamante nella metà degli anni ’90, ma a fare notizia fu piuttosto la scelta al draft 1997, quando gli Hornets chiamarono alla 13 un certo Kobe Bryant, spedendolo però immediatamente a Los Angeles in cambio di Vlade Divac, riluttante a entrare nello scambio ma convinto a farlo dall’allora general manager dei Lakers Jerry West (mr. Logo, per i profani). Col senno di poi, mai scelta fu più scellerata, ma all’epoca pochi potevano saperlo. Anche se magari in tanti si convinsero a lasciar perdere Charlotte anche in virtù dei modesti risultati che la vedevano costantemente estromessa dal gotha dell’NBA. Così, con le presenze alle gare interne drasticamente in calo e la reputazione del proprietario George Shinn ai minimi storici (colpa di un processo per molestie, da cui uscirà in seguito scagionato), quest’ultimo pensò bene di spostare armi e bagagli a New Orleans. Ma l’NBA non chiuse la porta a Charlotte: sul tavolo del commissioner David Stern arrivarono tante proposte e alla fine decise di prendere quella della Black Entertainment Television di Robert L. Johnson, autorizzando la creazione di una nuova franchigia cittadina (l’ok arrivò il 10 gennaio 2003). La giunta sportiva regionale indisse un concorso tra tutti gli abitanti per selezionare il nuovo nome: Bobcats, cioè le linci rosse tipiche della Carolina, la spuntò su Dragons e Flight. L’amministrazione locale diede anche il via libera per la costruzione di un nuovo impianto, in sostituzione del vecchio Coliseum: l’attuale Spectrum Center avrebbe visto la luce nel 2005, inaugurato da un concerto dei Rolling Stones.

MJ COME DIRIGENTE NON VALE QUANTO IL SUO PASSATO

Gli Charlotte Bobcats vennero inseriti nella Southeast Division assieme a Heat, Magic, Hakws e Wizards. Il debutto ufficiale della nuova franchigia avvenne con una sconfitta in casa (ancora al Coliseum) contro Washington. Di quel primo roster faceva parte tra gli altri Emeka Okafor, giovane promessa nigeriana (ma con passaporto statunitense), fresco vincitore del titolo NCAA con UConn, scelto alla numero 2 del draft dietro al solo Dwight Howard. Okafor quell’anno si sarebbe assicurato il premio di migliori rookie (cioè miglior debuttante assoluto nella lega), ma la squadra avrebbe chiuso con un record di sole 18 vittorie e ben 64 sconfitte. Col passare degli anni, la situazione non cambiò più di tanto: nonostante investimenti corposi e l’arrivo tra gli altri di coach Larry Brown in panchina, i play-off restarono un miraggio fino al 2009-10, quando trascinati in campo da Gerard Wallace i Bobcats riescono ad arpionare l’ottavo posto a Est, cedendo nettamente per 4-0 ai Magic nel primo turno. Da qualche settimana, intanto, era cambiata la proprietà: Johnson, che nel 2009 aveva messo le sue azioni in vendita, le cedette a Michael Jordan, al fianco del quale restò anche il rapper Nelly, già socio sin dal 2003. Le premesse di un nuovo ciclo vengono infrante da un triennio nerissimo: coach Paul Silas, subentrato a Brown, non riesce a riportare i Bobcats ai play-off, nonostante arrivino giovani interessanti come Biyombo e soprattutto Kemba Walker. Nel 2013-14, con Steve Clifford in panchina, le cose prendono una piega diversa: Charlotte chiude al settimo posto a Est riconquistando lo post season, ma uscendo di scena al primo turno subendo un cappotto dai Miami Heat di LeBron James. Saranno le ultime gare in assoluto dei Bobcats: dopo che un anno prima New Orleans aveva deciso di rinunciare al nome Hornets, optando per il cambio di denominazione in Pelicans, a Charlotte in momenti avevano pensato che il passo successivo sarebbe stato quello di riprendersi l’appellativo di calabroni. Jordan impiegò pochi giorni per formalizzare la richiesta, accolta dalla lega nell’estate del 2013 e ratificata a partire dalla stagione 2014-15. Ma perché tutta quella voglia di riappropriarsi del nome Hornets? Un po’ perché Bobcats non ebbe molta fortuna, un po’ perché ricorda la storia dell’attacco respinto dai ribelli americani contro i soldati inglesi nella guerra d’indipendenza.

In questo posto sembra di combattere contro un nido di calabroni

disse il generale britannico Charles Cornwallis.

(Credits: Getty Image)

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