FRANCO BALMAMION E I DUE GIRI D'ITALIA VINTI SENZA MAI VINCERE

Submitted by Anonymous on Tue, 01/11/2022 - 20:24
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Redazione
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Si può vincere due volte il Giro d’Italia senza mai imporsi nemmeno in una sola tappa? Si può, se il tuo nome è Franco Balmamion. Non a caso ribattezzato il “campione silenzioso”, talmente silente che quando s’inserì nella fuga giusta che l’avrebbe condotto verso un incredibile, quanto non pronosticabile successo al Giro del 1962 quasi nessuno se ne accorse. Anzi, uno non tardò molto a capire cosa stesse succedendo: era il suo capitano Nino Defilippis, che chiese all’ammiraglia di fermare quel giovanotto e ricondurlo a più miti consigli. Addirittura la sera, deluso dal mancato appoggio di Vincenzo Giaccotto, direttore sportivo della Carpano, tornò a casa a Torino, meditando di ritirarsi dalla corsa. Lo andarono a riprendere di forza quella stessa notte, per farlo ripartire il giorno seguente, ma “costretto” fare la corsa per Balmamion. Col quale però i rapporti rimasero ottimi, anche perché in fondo Franco fece solo il suo dovere.

Entrai nella fuga per fare lo stopper, ma andò a finire che guadagnammo molto più del previsto e mi ritrovai in maglia rosa, a poche tappe dall’arrivo a Milano.

Umile, schietto, di poche parole. E, soprattutto a inizio carriera, vincente più di quanto la sua semplicità non poteva dire.

L’EREDITÀ DELLO ZIO ETTORE, LA BICI COME AMICA

Quei silenzi di Franco in realtà erano eredità di un’infanzia durissima, tra la guerra e soprattutto la scomparsa del papà, avvenuta quando lui aveva appena 3 anni. A crescerlo, oltre alla mamma (che non ne voleva sapere di vederlo correre in bici: lo andò a vedere una sola volta, nel Giro del 1961, che partiva da Torino), fu lo zio Ettore, ciclista di buon livello a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, con un quinto posto al Giro del 1931 come miglior risultato. Ettore intuì immediatamente lo scarso feeling tra Franco e gli studi: a lui piaceva stare all’aria aperta e giocare con gli amici, ma soprattutto gli piacevano da morire le bici. Ed era proprio una vecchia bicicletta Frejus il suo mezzo di trasporto giornaliero, buono per accompagnarlo da casa sua (abitava a Nole Canavese, dove era nato l’11 gennaio 1940) all’officina FIAT di Caselle, dove lo zio gli aveva trovato un impiego. In un paio di occasioni, sempre in buona compagnia, si spinse persino a Saint Vincent per vedere passare il Giro d’Italia, mentre nel ’56 si recò a Torino per assistere all’arrivo della tappa alpina del Tour de France, vinta guarda un po’ proprio da Nino Defilippis.

Eravamo 60mila persone, fu una vera e propria festa di popolo. E ammetto che mi appassionai ancor più a quello sport, pur senza sapere che presto ne avrei fatto parte.

Il ciclismo all’epoca evocava grandi sogni: Bartali, Coppi e Magni erano al tramonto, ma una nuova generazione stava nascendo. Balmamion ne sarebbe stato uno dei simboli.

IL SOGNO ROSA: ZERO TAPPE, DUE GIRI IN BACHECA

Leggenda narra che, vista l’avversità della mamma a vederlo correre, quando Franco si presentò a casa con il primo tesserino della categoria Allievi, questo venne fatto a brandelli. Ma il talento era evidente e nel 1961 la Bianchi (si, quella che fu di Coppi) lo fece passare professionista. Al Giro chiuse 20esimo, non male per un esordiente. L’anno dopo però fu la Carpano a volerlo nelle sue file, gregario di quel Defilippis che 6 anni prima aveva visto trionfare a Torino. Nino se lo tenne stretto, consapevole delle qualità di passista del ragazzo, piemontese come lui. Ma quando nella Lecco-Casale la fuga andò in porto, Franco (che nel frattempo aveva cambiato cognome: registrato come Balma Mion, su suggerimento di alcuni dirigenti lo fece accorpare in un unico suffisso) divenne l’uomo da battere. Nessuno però ci riuscì: pur non essendo uno scalatore, Balmamion seppe difendersi senza grossi affanni, chiudendo con quasi 4’ su Imerio Massignan e 5’ su Defilippis. La sua vittoria, però, non scaldò il cuore degli appassionati: appena 22enne, sbucato fuori senza grossi acuti, semmai destò sorpresa e curiosità. Tutti erano pronti a vederlo sfiorire in fretta, ma nel 1963 accadde qualcosa che pochi avevano previsto: nominato capitano, il ragazzo di Nole fece ancora una volta della regolarità la sua arma migliore. Prese la maglia a metà Giro dopo le tappe alpine, la perse prima della campagna dolomitica, ma la riprese al termine dell’eroica Belluno-Moena, la tappa “dei monti Pallidi”, dove freddo, neve e fango imperversarono dall’inizio alla fine. Balmamion staccò Adorni, rivale di quell’anno, sul passo Valles e scollinò sul San Pellegrino con oltre 3’, blindando di fatto la maglia rosa e confezionando un clamoroso bis, ultimo italiano della storia dopo Coppi a riuscire nell’impresa (da allora, nessun ciclista tricolore ha mai vinto due Giri di fila).

IL PODIO AL TOUR, LA MAGLIA TRICOLORE

Le premesse per una carriera sfolgorante c’erano tutte, ma dopo due affermazioni tanto pesanti per Franco cominciarono ad arrivare i problemi. Nel 1963 si presentò anche al Tour, ma una caduta sul pavè lo mise fuori gioco dopo solo tre tappe. Nei tre anni successivi, pur piazzandosi sempre a ridosso dei migliori (un quinto, un sesto e un ottavo posto), il Giro non si rivelerà più a lui favorevole. Ma nel 1967, passato alla Molteni, torna assoluto protagonista inserendosi nella lotta per la vittoria finale tra Gimondi e Anquetil: il primo se prenderà la rosa a Milano, ma il francese, dominatore di 5 Tour, dovrà accontentarsi del terzo gradino del podio, proprio alle spalle del piemontese. Che poche settimane dopo si toglierà lo sfizio di conquistare la maglia tricolore vincendo il Giro di Toscana, quell’anno valevole come prova del campionato italiano. E col tricolore sulle spalle Balmamion in estate andrà al Tour per provare a fare l’impresa: è l’anno della drammatica morte di Tom Simpson sul Ventoux, giorno in cui Franco arriva in cima con i migliori (ma del caldo che faceva se ne ricorderà per tutta la vita). Alla fine in giallo a Parigi ci arriva Roger Pingeon, davanti a Julio Jimenez e a un Balmamion che contro ogni pronostico sale sul gradino più basso del podio. Dirà in seguito di aver sempre preferito il Tour al Giro, quantomeno per l’atmosfera che si respirava lungo le strade francesi. Sarà quello l’ultimo grande acuto del corridore di Nole, che chiuderà settimo nel Giro del 1968 prima di riconvertire il suo essere ciclista al servizio di Gimondi alla Salvarani e poi di Adorni alla Scic. Alla storia, però, Franco passerà come uno dei corridori più regolari e continui che si siano mai visti su una bicicletta.

Allora vincere un Giro senza vincere una tappa era qualcosa di inusuale, e molta gente non lo capiva. Oggi, se riesci a fare un’impresa simile, vieni osannato per la scaltrezza, l’astuzia e la bravura nel saperti gestire. Io non credo di essere stato un corridore speciale, ma di aver sempre fatto il mio con passione, impegno e determinazione. E questo mi basta.

Credits: Getty Image

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