MARCO PANTANI. E IL CUORE DEGLI ITALIANI BATTEVA FORTISSIMO

Submitted by Anonymous on Thu, 01/13/2022 - 16:05
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Redazione
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C’è una foto che meglio di qualunque altra racconta chi era, chi è stato e (forse) chi è Marco Pantani. È un reperto raro, anche perché legato agli inizi della sua ascesa da corridore professionista: è in maglia Carrera-Tassoni e lo vede agile sui pedali in salita, con dietro una nebbia abbastanza accentuata, e sullo sfondo una maglia gialla un po’ sfocata, quella di Miguel Indurain. Pantani prima maniera: s’era fatto conoscere qualche settimana prima al Giro d’Italia, stava facendosi conoscere in mondovisione anche sui Pirenei, al Tour, l’università del ciclismo (ieri come oggi). Nessun casco in testa (allora non era obbligatorio), qualche ciuffo di capelli in qua e in là, giusto per ricordare a tutti che Dio c’era anche prima di diventare pelato. È uno scatto che, rivisto oggi, non può non far sorridere, anche se il gusto della risata è un po’ amaro.

Dietro di lui, solo la nebbia

scriverà qualcuno. Miguelon è lontano, accompagnato peraltro dalla macchina dell’organizzazione, sempre attenta a non distogliere lo sguardo dal campione di Pamplona, all’epoca dominatore della Grand Boucle. Pantani è proteso verso l’ignoto, verso la vetta, verso l’abbraccio di un pubblico pronto a innamorarsene perdutamente. Nessuno dopo di lui è più riuscito a far scoccare una scintilla di simile grandezza nel cuore degli appassionati. La nebbia dei Pirenei serviva già a rendere magico ciò che la strada dimostrava essere magico.

UN’EREDITÀ ANCORA TROPPO PESANTE

Di solito non si festeggia il compleanno di chi non è più sulla terra, ma per Marco è necessario fare un’eccezione. E allora auguri, Pirata: non ci fosse stato di mezzo Campiglio, le discese ardite e le (tentate) risalite, la maledetta settimana al residence di Rimini e tutto il resto, oggi sulla torta il Panta spegnerebbe 52 candeline. Idealmente lo stanno facendo per lui tutti coloro che gli hanno voluto bene, che lo hanno acclamato, aspettato sulle salite di mezzo mondo, osannato ai piedi di un podio, confortato anche nelle giornate più tristi. La storia, o meglio, il tempo sta riconsegnando a Marco ciò che la giustizia (può essere definita tale?) gli ha tolto, fino a spingerlo sull’orlo del precipizio e lasciarlo cadere. Oggi però è il giorno della festa. Si, perché sapere che 52 anni fa a Cesenatico nasceva un campione aiuta a vivere meglio e a credere ancora nei sogni. Quelli di chi, seguendo le sue gesta in tv o sui giornali, ha deciso di trovare la forza per provare a emularlo, a ricalcarne in qualche modo le orme. Un’eredità troppo pesante per le spalle di un comune mortale, ma non è questo un buon motivo per non provarci. L’Italia sono ormai 20 anni che aspetta un erede del Pirata. Non necessariamente pelato, né tantomeno dominante e dominatore quando la strada s’impenna. Basterebbe uno che sappia scaldare i cuori e fermare il battito degli stessi, qualora ce ne fosse bisogno, anche solo per qualche istante, prima di una volata, oppure nel bel mezzo di una salita, o perché no, nel momento in cui si decide una grande classica. Uno al passo coi tempi, ma capace di rinverdire i fasti di un tempo.

IL CICLISMO È CAMBIATO, PER SEMPRE

L’Italia del pedale, checché se ne dica, non se la sta passando tanto bene da un po’. Non che manchino talento e abnegazione: Vincenzo Nibali è stato quello che forse è andato più vicino a raccogliere l’eredità di Marco, quantomeno per il fatto di aver riportato in altro il tricolore 16 anni dopo di lui sugli Champs Elysees. E qualche giovane rampante e di prospettiva non manca, vedi Giulio Ciccone (perseguitato dalla sfortuna) e Lorenzo Fortunato. Però è aumentata la concorrenza ed è cambiato il modo di correre in bici: Van Aert e Van der Poel corrono 12 mesi all’anno (quando stanno bene) e si scornano ogni qualvolta ci sia un traguardo da inseguire, indipendentemente dal tipo di pendenza e superficie (asfalto, pavè, terra o sabbia). Tadej Pogacar ha capito che la bici va presa come la vita, un po’ alla volta e senza esagerare, ma cogliendo il massimo non appena la strada lo consente. Egan Bernal, nato il 13 gennaio come il suo grande idolo, ha ammesso di ispirarsi a lui quando deve domare le montagne, e già che in Colombia ce ne sono e pure belle alte. Loro sono attori protagonisti di un ciclismo nuovo e differente, fatto di meno cronometro e più rampe, dove il fattore imprevedibilità è necessario per provare a superare l’impossibilità di avere personaggi in grado di far breccia con la loro sola presenza. Corse che promettono di essere meno controllate, ma che alla lunga vanno sempre come devono andare. Dove non si vede nessuno che a un certo punto butta via gli occhiali, poi il berretto e poi si alza sui pedali, facendo lievitare il numero dei battiti di chi sta guardando a bordo strada, o incollato alla tv. E forse non ci sarà mai. Che fortuna averlo avuto.

(Credits: Getty Image)

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