MICHAEL JORDAN, ADDIO BULLS: HIS AIRNESS SALUTÒ CHICAGO PER DAVVERO

Submitted by Anonymous on Thu, 01/13/2022 - 17:41
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Redazione
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Ci sono uomini che possono decidere di ritirarsi non una, neppure due, ma addirittura tre volte. E di farlo sempre con stile, creando attorno a se un’aurea leggendaria e al tempo stesso di ineluttabile destino. Che Michael Jordan prima o poi avrebbe deciso di appendere le scarpe al chiodo, beh, questo era un dato di fatto. Che l’avesse fatto il 6 ottobre 1993, a poche settimane dal via della stagione che avrebbe visto i Chicago Bulls andare a caccia del quarto anello consecutivo, in pochi l’avrebbero immaginato. Quanto fece però il 13 gennaio 1999 fu ancora più sorprendente, perché quel giorno i pensieri degli appassionati erano rivolti in tutt’altra direzione.

Lo stiamo rifacendo ancora, per la seconda volta.

MJ spiazzò una volta di più l’opinione pubblica, già peraltro disorientata da un lockdown che aveva privato milioni di tifosi del loro gioco preferito (la stagione sarebbe ripartita solo il 5 febbraio, dopo estenuanti trattative per il rinnovo del contratto collettivo tra il sindacato giocatori e il commissioner Stern). E quella notizia gettò un’ombra ancora più grande sul futuro della lega. Che seppe riprendersi grazie all’avvento dell’epopea Spurs e dei nuovi Lakers di Kobe e Shaq, ma che capì di aver visto tramontare per sempre un’era (forse) irripetibile.

LA PERDITA DEL DESIDERIO DELLA SFIDA

A detta di molti, quello del gennaio 1999 fu davvero il ritiro “ufficiale” di Michael Jordan. Che sarebbe tornato un paio d’anni dopo, vestendo la maglia dei Washington Wizards, giusto per provare a riempire ancora un po’ di arene in giro per gli States. Ma l’annuncio della fine definitiva della sua avventura con i Bulls somigliò tanto a un ritiro senza se e senza ma. Un’uscita di scena (appunto) leggendaria: l’ultimo pallone toccato in carriera da Michael sarebbe stato quello scagliato a canestro in faccia a Byron Russell, difensore dei Jazz, che pure nulla poté per impedire al 23 di infilare il canestro col quale metteva fine alla serie di finale contro Utah, garantendo a Chicago il sesto titolo in 8 anni. Un finale da favola, la scena perfetta per dire e dirsi addio, l’iconico tiro grazie al quale ancora una volta veniva riscritta la storia del gioco. “Going out on top”, uscire di scena al massimo del proprio splendore, all’apice di una carriera di per sé inimitabile e inarrivabile. Sentiva però di aver fatto abbondantemente il suo: se nel 1993 fu la stanchezza mentale a fargli dire stop, cercando nel baseball la voglia di adrenalina e competizione che da subito sentì mancare (ma dopo un anno e mezzo sarebbe tornato di corsa alla palla a spicchi), stavolta c’entrava anche la consapevole certezza di non potersi spingere oltre.

Non credo di sentire più dentro di me lo stesso desiderio di sfida, la stessa voglia di competizione: so che dal punto di vista individuale, per quello che riguarda la mia carriera, ho raggiunto ogni obiettivo che volevo raggiungere. 

Era una sorta di ammissione… di grandezza: aveva raggiunto vette talmente elevate che non sapeva più quale montagna scalare.

IL PULSANTE DI AUTODISTRUZIONE DEI BULLS

Quel giorno, sul tavolo della conferenza stampa preparata per l’occasione, accanto a MJ c’era Stern, c’è il proprietario dei Bulls, Jerry Reinsford, e c’era la moglie Juanita. Insomma, la decisione era stata presa “in famiglia”, poiché tutte le componenti della vita del giocatore erano ben rappresentate (la moglie, la franchigia, la lega). Non c’era però l’altro Jerry, cioè Krause, quello fatto a pezzi nel documentario “The last dance”, reo di aver smantellato la squadra dei 6 titoli in 8 anni e di aver soprattutto fatto di tutto per mettere alla porta Phil Jackson, che nel frattempo aveva già rivolto gli occhi a Los Angeles, pronto ad aprire un nuovo ciclo vincente. E in molti lessero proprio in quella decisione di non rinnovare Jackson la causa principale della decisione di Jordan di dire basta. Certo a rimetterci più di tutti fu Tim Floyd, colui che i Bulls scelsero come nuovo coach: di colpo si ritrovò privato della stella più lucente del firmamento cestistico americano, e i suoi tre anni in Illinois non sarebbero stati propriamente indimenticabili. Michael, però, di tutto questo se ne fece una ragione: ringraziò i tifosi per lo sconfinato affetto dimostrato, disse che la versione dei primi tre anelli fu più forte della seconda, che pure fece un’impresa più grande, proprio perché (sulla carta) meno competitiva rispetto alla precedente. E lasciò aperta una porticina in vista di un possibile ritorno in campo:

Al 99,9% è no, ma il mio 0,1% è il mio, non il vostro

disse sibillino. La scelta di rientrare con Washington, a posteriori, non fu tanto azzeccata, ma non cambiò la sostanza. “His airness” di fatto si tolse le scarpe il 13 gennaio 1999. E da allora, mai nessuno ha saputo ripeterne le gesta. Goat, punto e basta.

(Credits: Getty Image)

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