DINO MENEGHIN, VEDI ALLA VOCE: LEGGENDA

Submitted by Anonymous on Tue, 01/18/2022 - 19:22
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Redazione
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Alla voce icone dello sport italiano, Dino Meneghin quasi non riesce a entrare neppure nella riga che contiene il proprio nome. E non solo perché gli oltre due metri di altezza necessiterebbero di una nicchia ad personam: ad essere difficile da contenere è la straordinaria carriera che ha saputo offrire al mondo della pallacanestro italiana, di cui è stato per almeno tre decenni ben più di un semplice faro. Uno che, se fosse nato dieci, venti o (meglio ancora) 30 anni più tardi, di sicuro l’Italia se lo sarebbe goduto poco, perché il richiamo naturale sarebbero stati gli USA e le grandi arene del basket NBA. Un privilegio, insomma, è esserselo goduto per così tanto tempo, complice una carriera che ha sforato abbondantemente quella di un normale giocatore del suo calibro. Uno che ha voluto persino spingersi tanto in là da decidere di giocare assieme al figlio Andrea, un po’ come vorrebbe fare LeBron con il suo Bronny nel giro di qualche stagione. Arriverebbe comunque secondo, James: i Meneghin sotto questo punto di vista erano avanti anni luce.

IL CICLO D’ORO DI VARESE, L’NBA SOLO SFIORATA

Anche oggi che compie 72 anni, confidando in un regalo dell’amata Olimpia (assieme a Varese, una sorta di luogo spirituale dove ha insegnato basket al mondo intero), Dino Meneghin è un giovanotto che sprizza pallacanestro da tutti i pori. E dire che da quando ha cominciato a palleggiare di cose ne sono cambiate parecchie: non esisteva ancora il tiro da tre punti, i liberi erano facoltativi (si poteva scegliere se tirarli o se battere una rimessa), le stagioni si disputavano con andata e ritorno (solo a metà carriera subentreranno i play-off), l’uomo addirittura non era ancora andato sulla luna, ma quando appenderà le scarpe al chiodo c’era un robot che stava per accingersi a sbarcare su Marte. Nessuno ha mai collezionato 28 campionati italiani consecutivi come Dino, originario di un piccolo comune del bellunese, Alano di Piave (meno di 3.000 anime), al quale ha dato gloria immortale. A far conoscere il piccolo Meneghin al mondo, appena 16enne, fu Nico Messina, maestro di pallacanestro, responsabile del settore giovanile della Ignis Varese a metà degli anni ’60. Lo vede giocare, lo porta sotto la sua ala e lo fa esordire in A il 27 novembre 1966 contro la Fargas Livorno, gara nella quale Dino segna 10 punti e contribuisce alla vittoria della squadra varesina. È l’inizio di una lunga storia d’amore, la più proficua che la pallacanestro italiana ricordi: in 15 stagioni, fino al 1981, Meneghin non solo diventerà il faro indiscusso di Varese, ma anche uno degli atleti più vincenti del basket continentale. I titoli si sprecano: 7 campionati italiani, 4 Coppe Italia, 5 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 2 Coppe Intercontinentali. Nel 1970 addirittura lo chiamano al draft NBA: gli Atlanta Hakws lo selezionano alla 182esima chiamata, ma lui lo scoprirà solo molti anni dopo (all’epoca le comunicazioni erano ancora molto frammentate…). Il ciclo della Ignis si chiude all’inizio degli anni ’80, complici i guai della famiglia Borghi, proprietaria del club. E Meneghin, per ovvie ragioni di cassa, è sacrificato sull’altare della ripartenza: viene ceduto alla Billy Milano.

GLI ANNI DELLE SCARPETTE ROSSE, ORGOGLIO DI MILANO

La leggenda delle scarpette rosse dell’Olimpia è ancora ben impressa nella memoria degli appassionati. E Dino di quella squadra è il condottiero, nonché l’emblema: coach Dan Peterson in panchina, più Mike D’Antoni in regia, creano attorno al faro del movimento italiano un ambiente ideale per aprire un nuovo ciclo di successi. Arriva subito lo scudetto della seconda stella, soprattutto cominciano le notti magiche europee: l’Olimpia degli anni ’80 è la copia spiccicata della Milano da bere, quella che vive un periodo d’intensa euforia e di successi. Arriveranno campioni del calibro di Bob McAdoo, Antoine Carr, Joe Barry Carroll, e giovani italiani come Vittorio Gallinari (il papà di Danilo), Roberto Premier e Riccardo Pittis. Di scudetti ne arrivano altri 4 a stretto giro di posta, di Coppe dei Campioni altre due, così come altrettante Coppe Italia, una Coppa Korac e una Coppa Intercontinentale. Il basket italiano lo elegge a giocatore mito, anche perché nel frattempo arrivano pure i trionfi con la maglia della nazionale: dopo i bronzi europei del 1971 e del 1975, nel 1980 ai Giochi Olimpici di Mosca ci scappa un argento, e nel 1983 agli Europei di Francia arriva finalmente l’oro, apogeo di una carriera inimitabile, che lo vedrà scendere in campo 272 in azzurro (solo Marzorati, con 277, meglio di lui).

ONOREFICIENZE OVUNQUE, L’EREDITÀ DI ANDREA

Meneghin nel 1990 saluterà l’Olimpia (che in seguito ritirerà la maglia numero 11) per accasarsi per tre anni alla Stefanel Trieste, senza però lasciare grossa traccia. E per concludere la carriera, nel 1993-94, deciderà di fare ritorno di nuovo a Milano, giusto per concludere in bellezza la sua avventura. Nel frattempo il figlio Andrea, classe 1974, è già un giocatore affermato di Varese, che nel 1999 riporterà sul tetto d’Italia al termine di una stagione iconica (con lui, in campo, anche un favoloso Pozzecco). E se lo ritrova contro in una partita passata alla storia della pallacanestro italiana. La dinastia è in buone mani, e di Dino si accorgono anche dall’altra parte dell’Oceano: nel 2003 viene inserito nella Hall of Fame di Springfield, massimo riconoscimento per un cestista. Diventerà in seguito presidente della Federbasket, che nel 2018 lo elegge presidente onorario. Ma ogni riconoscimento di fronte a Meneghin ha poco valore: è la sua stessa grandezza a raccontare al mondo quanto è stato unico e irripetibile.

(Credits: Getty Image)

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