BJORN BORG, 1983: IL TENNIS, DOPO LA GLORIA, PRESENTÒ IL CONTO

Submitted by Anonymous on Sat, 01/22/2022 - 12:40
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Redazione
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Si può decidere di dire basta perché ci si è stancati di vincere? Bjorn Borg lo chiese ai giornalisti che lo incalzavano nel giorno in cui prese la forza per mettere un punto a una carriera precoce, ma dannatamente vincente e folgorante.

Mi sento massacrato dagli allenamenti, non ce la faccio a tenere 6-7 ore al giorno, non mi danno tregua. 

La mente, prima ancora che il corpo, costretta ad arrendersi alle fatiche di un mondo nel quale sentiva di non trovare più libertà di movimento. E i demoni che lo “costringevano” a dover ovviare a quel malessere, senza però riuscire a trovare rimedio. È un normale giorno di gennaio, ma il mondo del tennis da allora non sarebbe stato più lo stesso. Perché IceBorg, lo svedese di ghiaccio, quello chiamato Orso (no, non è un soprannome: Bjorn in svedese si traduce proprio “orso”), aveva deciso di rimuovere il velo da quelle sofferenze che lo stavano portando ad essere non più l’atleta e nemmeno il personaggio, ma un uomo incapace di guardarsi lo specchio. Uno che a furia di vincere aveva perso il gusto della vittoria. Ma al quale, fatalmente, furono due sconfitte a mandare in crisi convinzioni e certezze accumulate nel tempo, ma dissolte in un amen.

UN TENNISTA FUORI DAL (SUO) TEMPO

Quando decise di dire basta, Borg non cercò troppi giri di parole. In fondo restò fedele a quello che era sempre stato: anteposto alla vivacità di Jimmy Connors e all’esuberanza (oltre alla lingua lunga) di John McEnroe, lui le dichiarazioni le centellinava, così come i gesti sul campo. Sempre impeccabile nel look, coordinato con maglioncino, pantaloncino e scarpe, sempre attento a non spettinare troppo quel capello selvaggio, come venne ribattezzato, bloccato da una fascia sulla quale mettere in bella vista il logo dello sponsor. Ogni volta che vinceva non si lasciava andare ad atteggiamenti clowneschi: era sobrio anche nell’esultanza, e al più si concedeva una scivolata a terra sui ginocchi e le braccia larghe quando conquistava il trono di Wimbledon, missione compiuta per cinque anni di fila tra il 1976 e il 1980. Il suo annunciò provocò un terremoto: McEnroe, il rivale che l’aveva messo all’angolo e spinto a dire stop, fu il primo a tentare di farlo recedere dall’intento. Non ci riuscì, ma in fondo non se ne poté fare una colpa. Perché Bjorn era un uomo determinato, sicuro di sé e capace di guardare sempre le cose in faccia.

LA FINALE DELL’US OPEN 1981, PUNTO DI NON RITORNO

Se per 9 anni la sua fu un’ascesa impetuosa verso le vette più alte del circuito professionistico, dopo le sconfitte nelle finali di Wimbledon e dell’US Open 1981 in Borg scattò qualcosa: sentiva di aver perso fiducia, sentiva che qualcuno stava per usurpargli il trono, obbligandolo a raddoppiare gli sforzi per cercare di restare competitivo. Proprio quello che non avrebbe mai voluto fare: allenarsi per vincere. Non c’era più nulla per cui valesse la pena sudare, poiché era venuto meno il gusto di giocare. E senza più divertimento, automaticamente non c’era più gioia.

Ormai è evidente a tutti che McEnroe è il numero 1, e io non resto qui a fare da numero 2

disse anni dopo nel tentativo (postumo) di giustificare la scelta di non presenziare alla cerimonia di premiazione dell’US Open 1981, quando Bjorn prese immediatamente la via degli spogliatoi e poi dell’aeroporto. In realtà proprio sui fatti di quell’ultima finale slam si scriverà in seguito una narrativa piuttosto corposa: è stato confermato che prima della semifinale contro Connors (vinta in tre set) lo svedese venne minacciato di morte, tanto che per accedere al centrale di Flushing Meadows venne scortato da sette uomini delle forze dell’ordine, con una macchina ad attenderlo fuori dall’impianto e diverse pattuglie ad accompagnarla. In tanti hanno legato il crollo psicologico post finale anche a quelle minacce, tali da convincerlo che non valesse più la pena continuare a giocare se quello doveva essere il prezzo da pagare.

IL TRISTE EPILOGO NELLA SUA MONTECARLO

L’annuncio del ritiro rappresentò comunque un terremoto di enormi dimensioni per il tennis dell’epoca, ma in fondo non sorprese poi più di tanto gli addetti ai lavori. Del resto già nel 1982 i segnali erano stati evidenti: Borg quell’anno disputò un solo torneo, perdendo a Montecarlo ai quarti contro Yannick Noah. E quando a gennaio del 1983 confermò di aver deciso di voler interrompere la sua carriera, non fece sapere a nessuno dell’intenzione di concedersi un ultimo torneo, sempre a Montecarlo, la città dove viveva e dove sentiva davvero il calore del pubblico. Così tornò in campo a fine marzo, battendo al primo turno l’argentino Josè Luis Clerc e poi cedendo al secondo contro Henri Leconte al tiebreak del terzo, dopo aver vinto il primo set. Quel giorno, uscendo dal campo, fece sembrare tutto così naturale e normale che quasi non sembrava vero. Sarebbe tornato 8 anni dopo, ma la sua seconda vita da tennista si sarebbe rivelata un totale disastro, complici anche le turbolenze fuori dal campo tra matrimoni finiti in caciara (storiche le liti con la Bertè), vita sregolata e comportamenti sopra le righe. A 27 anni Borg decise di riprendersi quell’adolescenza che il tennis gli aveva tolto, senza sapere di essere comunque fuori tempo massimo. Il tennis gli aveva però dato fama, soldi (molti sperperati) e vittorie: 6 Roland Garros, 5 Wimbledon, 3 Masters e altri 50 tornaei ATP. Ma bastarono due finali perse per mandarlo fuori giri: non ci si conosce mai troppo bene, finché certe cose non accadono.

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