KOBE BRYANT. DUE ANNI DOPO

Submitted by Anonymous on Wed, 01/26/2022 - 20:31
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Redazione
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Ci sono momenti nella vita di una persona in cui è impossibile dimenticare dove si fosse e cosa si stesse facendo. A volte coincidono con istanti felici, altrettante volte con situazioni di profondo dolore e sgomento. Il 26 gennaio 2020 non c'era ancora la pandemia. Sarebbe arrivata di lì a breve. Da queste parti era sera, oltre Oceano c'era ancora luce. Il sole no: anche dove era ancora giorno, in alcune zone dell'America per esempio, faceva brutto tempo. Nebbia a banchi. Vedevi e non vedevi.

Leggi romanzi di centinaia di pagine, a volte, e se la storia ti prende vorresti fossero sempre di più. Hai bisogno, quelle volte lì, di restare a tal punto calato in quei fatti, di sederti così a lungo di fianco a quei personaggi che il fiume d'inchiostro che ne alimenta l'esistenza - di quei fatti, di quei personaggi - speri non si prosciughi. Hanno un sacco di cose da raccontare, a volte, gli scrittori.

Altre volte no. Quella prorompenza di frasi e di paragrafi è roba che non te ne fai nulla. Non scaldano, non catturano, non focalizzano come la vita vera. Era domenica, il 26 gennaio 2020.

Giornata di messa, giornata di partita.

Il lessico a volte è micidiale. Stravolge i significati, i significanti. 

Una domenica dimessa, una domenica dipartita.

Quando arrivò la notizia il fuso orario non contava più niente. Le distanze spazio temporali si sono annullate in un istante.  

È morto Kobe Bryant.

No, Kobe no. Kobe non poteva morire: le sue gesta in campo l’avevano reso talmente grande che niente e nessuno avrebbe potuto scalfirlo, per di più a poco più di 40 anni. L’incredulità sui volti delle persone divenne quasi un sentimento comune e le prime immagini in arrivo dalla contea di Los Angeles, pur confermando la gravità dei fatti e la loro veridicità, quasi sembravano prese da un film, talmente fuori dalla realtà apparivano agli occhi di tutti.

Uno shock, non solo per chi amava la pallacanestro. “Dear basketball”, la frase utilizzata da Kobe nella lettera di addio scritta pochi mesi prima di ritirarsi, nel 2016, risuonava nella mente come un mantra. E nessuno sapeva darsi pace. E a Los Angeles, quella domenica, faceva brutto tempo. Nebbia a banchi. Vedevi e non vedevi.

LE NOVE VITTIME DI UN INCIDENTE EVITABILE

E' già mattina: il cielo sopra LA era cupo, nuvoloni carichi di pioggia. Eppure Ara Zobayan, pilota di elicotteri dalla discreta esperienza (oltre 8.000 ore di volo), non si fece particolari problemi quando ci fu da riempire il velivolo e prendere la via di Calabasas, dove era in programma (ore 10.15) una partita di basket femminile giovanile. Ottenuta l’autorizzazione a volare, decollò da Orange County poco dopo le 9, cominciando il volo dalla parte opposta della città.

Il traffico, che a Los Angeles fa perdere ore e ore di vita, era uno dei crucci più grandi di Kobe: per evitare di restare imbottigliato su qualche highway pensò tempo addietro di dotarsi di un elicottero e di utilizzarlo ogni qualvolta ne avvertisse la necessità. Una sola condizione: non sarebbe mai salito a bordo assieme alla moglie Vanessa, poiché se fosse accaduto qualcosa (in fondo gli incidenti non sono poi tanto rari ad alta quota) almeno uno dei due sarebbe rimasto a occuparsi dei figli e dei loro affari.

Quella domenica sul velivolo con Kobe salì la figlia Gianna, che peraltro dal padre aveva ereditato passione e talento in abbondanza per la palla a spicchi. Con loro c’erano anche John Altobelli, 56enne ex giocatore di baseball e allenatore dell'Orange Coast College con la figlia Alyssa (coetanea e compagna di squadra di Gianna alla Mamba Academy) e la moglie Keri, Christina Mauser, assistente allenatrice di pallacanestro della Harbour Day School, infine Sarah e Payton Chester, mamma e figlia residenti nella contea di Orange.

L’EREDITÀ DI UN CAMPIONE

Kobe è Kobe per sempre: vale per tantissimi di noi che hanno fatto il tifo per lui. Vale per quelli che con Kobe sono diventati grandi: il poster in camera, la canotta dei Lakers col suo nome e il suo numero (che poi, a dirla tutta, non era quella ufficiale: comprata da qualche parte, pagata un terzo, conservata come una reliquia), le notti in piedi per guardare l'Nba. Per guardare i Lakers. Per guardare lui. Tutto vero. Ma non fu il basket, quel giorno, a fare da collante tra i continenti.

Tanti nemmeno avrebbero saputo associare Kobe a una squadra. Kobe a una maglia. Kobe a uno sport. Fu, semmai, l'entità della tragedia. L'età media delle vittime. Vite giovanissime cui veniva negato un futuro. Quel giorno una fetta di mondo scoprì quel che un'altra fetta di mondo già conosceva. Kobe Bryant.

Un signor giocatore, capace di conquistare 5 anelli e di riportare i Lakers a fasti di cui si era persa memoria da più di un decennio. Un campione con un carattere difficile da decifrare. C'è stato il Kobe trascinatore, uomo squadra, solare, indomito. Ma anche quello a volte ispido, a volte duro, altre spavaldo, fastidioso. Kobe è diventato grande quando ha iniziato a voler somigliare agli uomini e non agli eroi.

Ha dovuto mettere da conto anche diatribe con la legge, uscendo poi intonso da un processo per violenza sessuale che a un certo punto della carriera sembrò quasi stroncarlo. Fu il perdono di Vanessa a cambiare le cose: quel Kobe spesso scontroso e un po’ eccessivo anche nel modo di competere imparò la lezione facendosi umile anche al cospetto dei compagni. In quel momento, è scattato l'amore trasversale per Kobe. A quello dei suoi tifosi si è aggiunto anche quello dei tifosi altrui.

Aveva appeso le scarpe al chiodo da poco più di tre anni quando la nebbia di Calabasas se l’è portato via. Tre anni nei quali aveva girato il mondo, portando avanti progetti di solidarietà, vivendo una vita nuova, quella che gli impegni sul parquet gli avevano negato nei 20 anni precedenti. Aveva una famiglia bella e numerosa, sentiva di poter essere un esempio per gli altri. Sapeva che, a un certo punto in cui il basket era il passato, diventare esemplari volesse dire qualcosa di più che fare canestro, diventare Mvp, vincere l'Nba. 

Ebbe anche modo di tornare in Italia, dove aveva vissuto quando papà Joe decise di venire a giocare nel campionato italiano. Un pezzo della sua infanzia era a tinte tricolore, e lui, a distanza di anni, parlava ancora bene la lingua, dichiarando il proprio amore per quel paese che l’aveva accolto e trattato alla stregua di un figlio. Sapeva essere riconoscente, Kobe. Aveva trovato grande consapevolezza di sè. Aveva deciso di continuare a crescere: come individuo, padre, marito, concittadino, figlio della comunità, parte di un insieme. Negli ultimi anni rideva tantissimo. Mai visto un Kobe così sereno come negli ultimi anni.

Che uno, per raccontare Kobe, potrebbe tirare fuori i numeri e le statistiche di anni e anni di campionati Nba. Eppure a tanti - che non hanno mai tirato da 2, mai visto un pick and roll, mai fatto i conti col tempo effettivo - non arriverebbe niente.

Però se la dici in altro modo - se asciughi il concetto e lo riduci ai minimi termini, se banalizzi - arrivano a capire tutti.

Chi è Kobe.

Diciamo che dalla nascita dell'Nba fino a oggi la totalità dei giocatori di basket dell'Nba è pari a un milione: di quel milione, in diecimila avranno vinto, in carriera, almeno un campionato.

Poi. Diciamo che dalla nascita dell'Academy Award fino a oggi la totalità dei professionisti del cinema è pari a un milione: di quel milione, in cinquemila hanno vinto, nella loro carriera, un Oscar.

Kobe li ha vinti entrambi.  

(Credits: Getty Image)

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