MARCO PANTANI: DOPO 18 ANNI È TEMPO DI FAR EMERGERE LA VERITÀ

Submitted by Anonymous on Mon, 02/14/2022 - 14:52
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Redazione
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Oggi l’Italia, quella innamorata di uno dei suoi figli più belli e vincenti prestati allo sport, è diventata maggiorenne. Un’età sufficiente per togliere via il velo dell’illusione dell’adolescenza, quella che in fondo ha attanagliato almeno una volta nella vita ognuno di noi, facendoci credere che il mondo che sta là fuori potesse in qualche modo essere plasmato a nostra immagine e somiglianza. In realtà il mondo è sempre stato là fuori, con le sue verità scomode e i suoi fardelli, ma fino a che uno non è maggiorenne non è che poi gli importi così tanto di imparare a conoscerlo tanto nel dettaglio.

Oggi però l’Italia s’è destata per davvero e s’è accorta del velo che le impediva di vedere le cose dalla giusta prospettiva. A 18 anni non c’è più bisogno di accampare scuse: tanti ne sono passati da quel maledetto 14 febbraio 2004, un sabato (apparentemente) come un altro, il giorno che ha consegnato alla storia una morte che sulle prime appariva tanto insensata, ma che oggi assume un valore e una fattezza ben diversa agli occhi di chi la osserva.

Altrimenti non avrebbe alcun senso convocare in procura un tassista che quel giorno accompagnò due escort nel Residence “Le Rose” di Rimini, cercando di ricomporre faticosamente i pezzi di un puzzle che all’epoca qualcuno volle nascondere come la polvere sotto al letto. Non era mai emerso prima un simile elemento: nell’adolescenza, agli italiani venne fatto credere che Marco Pantani era morto da solo, per overdose, liquidando i fatti come “normale amministrazione” e dando la colpa a quel mondo del ciclismo che lo aveva allontanato brutalmente, sacrificato sull’altare di una superiorità che ai più aveva cominciato a dare tanto, troppo fastidio.

LA SALITA, LA STRADA COME AMICA

Avrebbe voluto difendersi, Marco. Solo che lui sapeva solo attaccare: in salita, soprattutto, perché più volte ammise che la fatica non gli piaceva, e l’unico modo per accorciarla era appunto andando più forte che poteva in salita, così da arrivare prima al traguardo. Da 18 anni un pezzo del cuore di ogni italiano, non solo di chi mastica bici e pedale anche a colazione, se n’è andato assieme a quel piccolo romagnolo, uno che fece anche “bestemmiare” milioni di appassionati, al punto da affermare che “Dio c’è ed è pelato”.

Fosse nato duemila anni prima, al tempo di Gesù, gli scribi e i farisei avrebbero dovuto condannare milioni e milioni di comuni mortali, rei di aver testimoniato di aver visto sembianze divine in un atleta minuto e di poche parole, che pure quando uscivano dalla sua bocca erano taglienti come lame.

Pantani ha pagato anche per questo: non si fece scrupoli quando ci fu da mettere a rischio persino la vittoria più grande della sua carriera (il Tour de France 1998) per manifestare assieme ai colleghi contro i metodi brutali che la polizia utilizzava nei confronti dei corridori, colpevoli di partecipare a un evento nel quale la parola d’ordine era setacciare nella spazzatura a caccia di provette che potessero giustificare l’uso di doping, la più feroce caccia alle streghe che la storia del ciclismo ricordi. Piaceva alla gente, estasiata dalle sue vittorie. Non poteva però piacere a un mondo che viveva ormai solo della sua luce riflessa.

L’ULTIMA VITTORIA, ANCHE PER MAMMA TONINA

Pantani era vero, schietto, genuino come la sua terra di Romagna, nato e cresciuto a piada e cassoni, diventato grande in mezzo ai giganti, che prima lo bastonavano a cronometro e poi lo vedevano sparire in salita. Ha superato incidenti (terribile quello nella Milano-Torino 1995) e affrontato sconfitte cocenti, ha ribaltato gare come si faceva cinquant’anni prima, riportando indietro le lancette del tempo. Ma ha goduto dei suoi trionfi per troppo poco tempo, incastrato (è il termine giusto?) quel 5 giugno 1999 a Campiglio, quando uscendo l’hotel dove di buon mattino era stato controllato in circostanze dai contorni nebulosi (tra provette e macchinari sospetti) affermò di essersi rialzato tante volte, ma di temere che dopo quella batosta non sarebbe riuscito a farlo nuovamente.

Vedeva probabilmente con i suoi occhi quello che i successivi 5 anni avrebbero raccontato: una carriera stroncata nell’animo, le gambe che non potevano più rispondere, poiché anche la mente era costretta a pensare e a ripensare a quel torto subito, senza nessuna colpa, senza sapere perché davvero quel mondo là fuori ce l’avesse così tanto con lui. Forse solo oggi che siamo tutti maggiorenni ce ne rendiamo conto, dopo che per anni mamma Tonina lo ha urlato al mondo.

A lei è rimasta la speranza di riconoscere a Marco l’ultima grande vittoria, quella di una vita finita non per colpa sua, ma per volere d’altri. Tutti noi abbiamo l’età per guardare le cose con gli occhi della verità e aiutarla in quest’ultima salita. Il Pirata ci aspetta lassù, perché come al solito se n’è andato in fuga e ha fatto il vuoto. Ma sta già ridendo, aspettando di vedere le nostre facce.

(Credits: Getty Image)

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