I BIDONI DELLA STORIA DEL CALCIO ITALIANO: UN PO' SCARSI E UN PO' EROI

Submitted by Anonymous on Tue, 02/15/2022 - 22:29
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Redazione
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Il vocabolario Treccani di bidone da questa definizione:
prodotto siderurgico semilavorato in forma di piatto con gli spigoli arrotondati, largo da 15 a 30 cm. Con un’ulteriore lavorazione serve alla fabbricazione dei lamierini. Oppure, con altra accezione, recipiente di metallo o plastica, in genere di forma cilindrica, usato per contenere liquidi o altri materiali. Applicato alla prosopopea sportiva, la definizione è quella di un atleta di doti modeste e scarsa abilità.

Ma il fatto di essere un bidone ha permesso a molti calciatori di dubbie qualità di restare impressi nella memoria collettiva, magari entrando nella storia dalla parte sbagliata, ma pur sempre meritandosi un posto nel cuore e nei ricordi degli appassionati. Perché in fondo si può essere scarsi quanto uno vuole, ma col tempo al pensiero dei “bei” tempi andati ci scappa una risata di pura nostalgia. E anche le performance peggiori, quelle che non si augurerebbero neppure al peggior nemico, assumono una luce diversa.

BENEDETTA FU LA RIAPERTURA DELLE FRONTIERE

Doverne scegliere alcuni non è per nulla semplice. In fondo di bidoni la storia del calcio ne è piena da sempre, con alcuni periodi storici particolarmente floridi, specie quelli seguiti alla riapertura delle frontiere che ha finito per ingolosire tanti presidenti incauti, pronti ad affidarsi al nome esotico di turno pur di tentare il grande colpo a effetto e vendere qualche biglietto in più.

A volte ad alcuni di loro la piazzata è riuscita (pensate a Nakata al Perugia), ma nella maggior parte dei casi il risultato è stato a dir poco insoddisfacente, talvolta persino dannoso. Perché certi investimenti sono costati tanto e hanno prodotto dietro di loro solo macerie, nelle big come nelle piccole piazze di provincia. Enumerarli tutti sarebbe impossibile, allora proviamo a dare un senso a questa sorta di hit parade andando a scovare i bidoni più significativi di ogni decade, naturalmente riferiti al massimo campionato italiano, che una volta era l’Eldorado dei bidoni di mezzo mondo, mentre oggi si confonde nella mediocrità di tante operazioni di mercato che non hanno altra finalità, se non quella di sistemare bilanci e conti correnti degli intermediari.

GERMANO, IL PRIMO BIDONE DEGNO DI TAL NOME

Detto che dal dopoguerra alla fine degli anni ’50 di giocatori che sbarcarono in Italia a caccia di soldi se ne contarono a centinaia (forse i più famosi furono l’argentino Carlos Bello, che illuse i tifosi della Sampdoria disputando appena 3 gare in blucerchiato, e lo svedese Jon Aronsson, imprudentemente definito l’erede di Nordhal, transitato senza lasciare traccia tra Inter, Milan e Vicenza), a partire dagli anni ’60 le cose cominciarono a prendere un’altra piega. Perché le conoscenze aumentavano, le informazioni sui nuovi arrivi erano sempre più dettagliate e di conseguenza sbagliare era un po’ meno scontato.

Così nell’estate del 1962 il Milan campione d’Italia, che di lì a poco lo sarebbe diventato anche d’Europa, portò dal Brasile un ala chiamata Germano, su consiglio di Altafini e Sani che avevano giocato con lui in nazionale. L’avvio fu ottimo, con due reti all’esordio, ma poi ben presto le sue prestazioni andarono calando e di Germano facevano notizie semmai le frequentazioni extra campo.

Già, perché il brasiliano perse la testa per una giovane ragazza meneghina di nome Giovanna, ma che di cognome faceva Agusta (era la figlia del proprietario della storica marca di moto). La famiglia non acconsentì alla relazione, che proseguì clandestinamente anche quando Germano andò a giocare al Genoa, prima di far ritorno in Brasile.

In campo non lasciò il segno, fuori il meglio doveva ancora venire: nel 1966 andò a giocare in Belgio, a Liegi, e la giovane contessina Agusta lo raggiunse, rimanendo incinta e decidendo di sposarlo. Alla fine del decennio il matrimonio andò in frantumi e Germano se ne tornò in Brasile, lautamente “stipendiato” dagli Agusta, con la sola promessa di non farsi mai più vedere. Un po’ sulla falsariga di quanto fece come calciatore.

LUIS SILVIO APRE LA STRADA A UN’EPOCA D’ORO

Negli anni ’60 la Serie A era già un campionato invidiato da molti. Vi sbarcarono giocatori che avevano fatto cose egregie, vedi Santisteban e Kaszas al Venezia (fecero entranbi parte del grande Real) e Seminario, attaccante peruviano passato senza gloria alla Fiorentina. Negli anni ’70 la FIGC chiuse le frontiere, come risposta alla debacle contro la Corea del Nord del 1966 (e la brutta avventura a Germania 1974 non incentivò la riapertura).

Ma quando le riaprì, alla fine del decennio, la corsa al colpo esotico fu tale da ingolosire soprattutto le piccole società di provincia a presentare giocatori magari visti in vhs, ma senza alcuna logica e senza garanzie. È il caso di Luis Silvio, attaccante brasiliano sbarcato alla Pistoiese nel 1980: presentato come prima punta, in realtà era un normale e onesto esterno di centrocampo, che ingannò tutti (senza volerlo) rispondendo in maniera affermativa alla domanda “sei una punta?”, che lui, senza conoscere la lingua, tradusse con “ponta”, cioè ala, così come venivano (e vengono) chiamati gli esterni in Brasile.

Appena 6 presenze e un mare di leggende, da quella che lo voleva a vendere gelati fuori dallo stadio a re della movida (e che movida) delle notti pistoiesi. Con Luis Silvio si apre la vera stagione dei bidoni, e negli anni ’80 pullulano personaggi passati alla storia: da Gagoui Zahoui, primo africano in A con la maglia dell’Ascoli (11 presenze e zero reti, naturalmente), a Jorge Caraballo, uruguayano che fece dannare il popolo pisano, da Luther Blissett (i milanisti ancora hanno gli incubi al solo sentir pronunciarne il nome) a Joe Jordan, e ancora Hugo Maradona (si, il fratello “scarso” che esiste in ogni famiglia, peraltro recentemente scomparso), il “bomber” greco Nikos Anastopoulos, che ad Avellino la porta avversaria la vedeva col binocolo, fino alla coppia romanista composta da Andrade (ribattezzato “er Moviola” per la lentezza del gesto tecnico) e Renato Portaluppi, tombeur de femmes delle notti della capitale.

Per ultimo, Claudio Borghi, argentino che fece dannare la Juve del Trap nella finale dell’Intercontinentale 1985, in Italia lo portò Silvio Berlusconi, ma Sacchi gli preferì Rijkaard (rischiando l’esonero…) e così venne parcheggiato al Como, dove fece ricredere il futuro presidente del consiglio.

PANCEV E STOICHKOV, IL VENTO DELL’EST

Gli anni ’90, prima ancora dell’arrivo della sentenza Bosman che liberalizzò il mercato dei calciatori nella comunità europea, offrirono al mondo dei bidoni talmente forti che quasi al pensiero scende un lacrimuccia. Il più illustre, manco a dirlo, albergò a Milano, sponda nerazzurra: Darko Pancev nel 1991 era stato Scarpa d’Oro, campione d’Europa con la Stella Rossa di Belgrado, ma all’Inter fu semplicemente disastroso. Un pelino meglio, ma non al punto da salvarsi, un altro bomber dell’est, quel Hristo Stoichkov che illuse Parma nell’estate del 1995, vivendo un’annata da comprimario.

All’Inter si ricordano altri due acquisti senza fortuna, entrambi sudamericano: Caio Ribeiro Decossau, in seguito affermato modello e oggi opinionista tv, fu una grande delusione. Almeno Sebastian Rambert qualcosa di buono lo fece, se è vero che all’interno della sua operazione venne aggregato anche un certo Javier Zanetti, che la storia ha poi dimostrato essere un acquisto più che azzeccato.

A Firenze hanno gli incubi pensando a Marcio Santos e Stefan Effenberg, alla Juve nel 1999 passò Juan Esnaider, senza lasciare minimamente traccia. E che dire di Winston Bogarde, transitato al Milan dopo i trionfi con l’Ajax e ripartito in fretta dalla disperazione di chi doveva mandarlo in campo? A fine millennio, però, la Lazio piazzò un bidone che fa ancora parlare: Ivan de la Pena era un signor giocatore, ma nella capitale non riuscì mai ad accendere la luce. E siccome errare è umano, ma perseverare è diabolico, nel 2001 la Lazio riuscirà a fare ancora peggio.

IL BASCO COSTATO UN OCCHIO DELLA TESTA

Il nuovo millennio è stato una fucina di bidoni come mai si era vista prima. Su tutti svetta Vratislav Gresko: l’interista ha marchiato a fuoco l’errore più rimpianto della storia recente dei nerazzurri, cioè uno sciagurato retropassaggio trasformato in uno dei 4 gol laziali nel drammatico ko. del 5 maggio 2002, quando l’Inter regalò di fatto lo scudetto alla Juventus. Tardelli, che fu tra coloro che ne caldeggiò l’acquisto, continuerà a considerarlo un buon terzino, solamente da “educare” tatticamente, ma ormai il danno era fatto.

Nello stesso anno però sbarcò in Italia Gaizka Mendieta: col Valencia aveva sfiorato due volte la Champions, tanto da convincere Cragnotti a un’ultima follia prima che i problemi dell’azienda di famiglia lo avrebbe costretto a passare la mano. Il costo esorbitante (90 miliardi) non venne minimamente ripagato: 27 gare, zero reti e una svendita obbligata all’estero, senza rimpianti (per i tifosi) ma con le casse svuotate.

Spostandosi qualche metro più avanti, impossibile non parlare di Mario Jardel: quando arrivò all’Ancona, nel gennaio 2004, era già la controfigura del bomber che con la maglia del Bayern terrorizzò le difese di mezza Europa. Un finale già scritto: tre sole presenze, naturalmente zero gol. E una retrocessione inevitabile sullo sfondo. Alla Juventus ricordano con terrore Athirson, laterale mancino di origini brasiliane, preferito nell’estate del 2001 a Roberto Carlos (che si sarebbe potuto liberare dal Real Madrid, ma a un prezzo salato). Cinque presenze e nessuna traccia, tra i pochi flop targati Luciano Moggi. L’Inter dell’epoca piazzò altri bidoni eccellenti, da Vampeta a Robbie Keane, da Farinos a Brechet.

La Roma al solito non si fece mancare nulla: pochi anni dopo il flop di Fabio Junior “l’altro” Ronaldo (quello sbagliato, naturalmente), con l’egiziano Mido si tentò di sopperire allo scippo juventino, che sottrasse all’ultimo Ibrahimovic alla dirigenza giallorossa. Il risultato? Otto presenze, zero gol, tanti saluti e a mai più.

GABIGOL, L’EUROPA NON SARÀ MAI LA TUA CASA

Gli ultimi bidoni, quelli recenti, non hanno minimamente il fascino di chi li ha preceduti. Al Milan, ad esempio, dopo Ricardo Oliveira (26 gare e due reti nel 2007 con la 7 ereditata da Sheva sulle spalle) se ne son viste di cotte e di crude con la maglia numero 9 che fu di Inzaghi passata sulle spalle (tra gli altri) di Fernando Torres e Luiz Adriano, ma per loro le giustificazioni non mancano (e così per Carlos Bacca).

Anche la Juve, prima di cominciare il dominio sul suolo nazionale, c’era andata giù pesante con Krasic, Elia e Bendtner, gente che dalle parti di Vinovo non vogliono più sentire neppure nominare. E la Roma ha dato il solito apporto con Seydou Doumbia (l’attaccante che sapeva cantare, ma di segnare non se ne parla proprio…) e Vermaelen.

Forse però il bidone del decennio è ancora una volta di stanza alla Pinetina, perché Gabigol all’Inter nel 2016 è costato 30 milioni di euro, ma per altrettante ragioni non si riesce a capire perché abbia saputo fare tanto male. Da quando è tornato in Brasile ha vinto di tutto e segnato caterve di gol, ma in Italia no, in Italia l’esperimento non ha funzionato, con una sola rete segnata a Bologna di cui tutti si ricordano solo per il fatto che quel giorno l’Inter indossava una divisa improponibile, subito accostata per evidenti motivi cromatici alla bottiglia della Sprite. Al confronto impallidisce anche Kondogbia, altro bidone del decennio.

(Credits: Getty Image)

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