PAOLO BETTINI: IL “GRILLO” CHE SALTAVA IN SELLA ALLA SUA BICI

Submitted by Anonymous on Fri, 04/01/2022 - 21:06
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Redazione
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Fa male pensare che Paolo Bettini da La California, il più grande finisseur che il ciclismo italiano ha avuto a cavallo del nuovo millennio, compia oggi 48 anni. Fa male perché a vederlo, così magro e tirato come nei giorni migliori, verrebbe voglia di chiedergli di tornare in gruppo e provare a trainare ancora una volta il movimento azzurro. Dopotutto, se Rebellin è ancora in sella con 50 anni e passa nelle gamba, perché mai il “Grillo” dovrebbe restare a guardare?

Eppure sono trascorsi già 13 anni e mezzo dall’ultima corsa, quel mondiale di Varese nel quale tutti lo marcarono a vista, perdendosi di netto Alessandro Ballan che con un poderoso scatto a ai meno tre chilometri dall’arrivo andò a prendersi la maglia iridata, quella che nei due anni precedenti era stata indossata proprio da Bettini. E quella che un giorno, sul palco premiazione di una tappa della Tirreno-Adriatico, gli fece scappare una volta di più un sorriso.

Mi si avvicinò una miss e mi chiese: come mai tutti hanno una squadra e dei compagni e tu corri da solo con questa maglia?

Beata innocenza. Di più, nostalgia canaglia.

L’APPRENDISTATO CON BARTOLI, PRIMA CAPITANO E POI RIVALE

Paolo Bettini non ha nulla di americano, pur essendo nato a La California. Comune di Bibbona, a un tiro di schioppo da Cecina, provincia di Livorno. Classe 1974, anno che nel ciclismo è ricordato per i trionfi in serie di Eddy Merckx (Giro, Tour e Mondiale) ma anche per il successo di Felice Gimondi alla Milano-Sanremo, arrivato giusto qualche giorno prima che Paolo venisse al mondo. A far festa, quel giorno, fu il babbo Giuliano, grande appassionato di ciclismo, il quale impiegò poco a indirizzare verso il pedale i due figli Sauro e Paolo.

Che essendo minuto venne ribattezzato da subito Paolino, anche se poi il mondo l’avrebbe conosciuto col soprannome di “Grillo”, perché amava saltare da una parte all’altra del gruppo, soprattutto quando c’era da mettere nel mirino qualche arrivo adatto alle proprie caratteristiche. In ambito giovanile il piccolo Bettini fece parlare di sé per via di un carattere spesso esuberante che lo portava a vincere corse con estrema facilità.

Ma il passaggio nei professionisti, benché carico di attese, lo mise subito in contrapposizione a un altro toscanaccio doc, col quale ben presto furono scontri e legnate: Michele Bartoli però per Bettini fu un maestro, nel senso che seppe indicargli la via del successo. Fargli da gregario non sempre rese Paolo felice: lui sentiva di essere già competitivo, ma gli obblighi di squadra venivano prima degli obiettivi personali.

Così per tre anni dovette sottostare a fare il gregario, ricoprendo il ruolo in modo mirabile. Quando poi nella primavera del 2000 Bartoli s’infortunò, impossibilitato a prendere parte alla Liegi-Bastogne-Liegi, Paolo colse al volo l’occasione: quel giorno la squadra face quadrato attorno a lui, e puntuale arrivò la prima classica da mettere in bacheca. Era la conferma di un potenziale enorme, tanto grande come la verità più evidente: con Bartoli ormai c’erano due galli nel pollaio, ed era tempo di dividere le rispettive strade. Non più alleati, solo avversari.

GLI ANNI DELLE COPPE DEL MONDO E L’ORO DI ATENE

Per altri due anni Bettini e Bartoli avrebbero condiviso la stessa squadra. Ma raramente corsero nello stesso giorno: le classiche del Nord non andarono come nelle attese, ma Paolo continuava a crescere e vinse a Zurigo, in estate, e poi la Coppa Placci, con arrivo a San Marino. L’anno dopo concesse il bis a Liegi, e ormai in casa Mapei la scelta era bella che fatta: a fine stagione sarebbe stato addio con Bartoli, puntando tutte le carte su Bettini. Che nel 2003 arriverà a prendersi la madre di tutte le classiche, cioè la Milano-Sanremo, proponendosi anche l’obiettivo di conquistare la classifica della Coppa del Mondo, che all’epoca metteva assieme le 10 gare di un giorno più importanti della stagione, già vinta nel 2002 (e si ripeterà anche nel 2004 per un tris da favola).

Ormai Paolo è l’uomo da battere in tutte le classiche monumento e non solo: vince il campionato italiano, conquista il successo ad Amburgo e a San Sebastian, diventa indiscutibilmente il ciclista numero uno al mondo, contrapposto a quell’Armstrong che all’epoca però correva solo due mesi all’anno, facendo incetta di Tour. Alla grand boucle il “Grillo” preferisce il Giro, dove vince per due anni di fila la classifica a punti (la maglia ciclamino: 2005 e 2006).

Nel 2004 centra un successo di grande rilevanza alla Tirreno-Adriatico, poi ad agosto va all’Olimpiade e si prende pure la medaglia d’oro al termine di una corsa perfetta, magistralmente condotta nella parte finale. Quell’oro lo ripaga di qualche delusione di troppo nei vari mondiali disputati in quegli anni, ma il tempo anche in questo caso saprà essere galantuomo.

QUEL SOGNO IRIDATO FINALMENTE CORONATO

Pare stregata, quella maglia iridata. Bettini la insegue con tutto se stesso, ma ogni volta che la vede avvicinarsi, puntualmente la vede allontanarsi un istante dopo. Intanto nel 2005 si “consola” vincendo il Giro di Lombardia, una delle poche monumento che mancavano alla collezione, peraltro in coda a una stagione tra luci e ombre.

Nel 2006 riparte con tutt’altra gamba: vince due tappe alla Tirreno-Adriatico, vince a Lugano, una tappa al Giro e il campionato italiano, quindi ad agosto si prende pure una tappa alla Vuelta. Il mondiale di Salisburgo è nel mirino da tempo e stavolta il “Grillo” vuol saltare sulla ruota giusta: il 24 settembre 2006 è il grande favorito e stavolta non sbaglia, centrando un successo inseguito per anni e che arriva nel momento di massimo splendore di una carriera che a 32 anni lo pone tra i più grandi di sempre.

La gioia però dura poco, perché un paio di settimane più tardi il fratello Sauro muore in un incidente stradale e di colpo la vita gli presenta un conto salatissimo. Paolo è sconvolto: c’è da correre il Lombardia, non avrebbe voglia nemmeno di scendere dal letto. Poi alla fine si convince a gareggiare, e naturalmente vince, a braccia elevate e con gli occhi gonfi di lacrime che gli solcano il volto. Per qualcuno è pronto a scendere dalla bici, ma c’è da correre una stagione in maglia iridata e allora torna all’assalto in gruppo.

Invero le soddisfazioni sono molte meno rispetto alle abitudini, ma alla fine tutto porta di nuovo al mondiale, che si corre a Stoccarda e che è preceduto da una sterile e inutile polemica legata a un presunto coinvolgimento in una vicenda doping. Bettini zittisce tutti, anzi, impallina i suoi detrattori vincendo il secondo mondiale (iconica l’esultanza dove spara a chi l’aveva ingiustamente accusato), e il mondo del ciclismo è nuovamente ai suoi piedi.

L’ULTIMO BALLO, A VARESE, IN UN MARE DI SORRISI

Va per i 34 anni Bettini, ma è ancora il pericolo numero uno in gruppo. Nel 2008 prepara la stagione convergendo su due obiettivi, gli ultimi due della sua carriera: le Olimpiadi di Pechino e il mondiale di Varese. Sogna di lasciare ancora una volta il segno, ma in Cina la gara è strana e il percorso non ammette troppi strappi alle regole, con l’Italia che sfiora la vittoria con Rebellin. Il mondiale arriva al termine di un periodo di intensa riflessione nel quale Paolo arriva a maturare l’idea di voler chiudere la carriera a fine stagione.

L’annuncio arriva a due giorni dalla gara: per qualcuno con quelle parole spacca il gruppo azzurro, per altri carica quel mondiale e quella squadra di ulteriori pressioni. Il lieto fine è dietro l’angolo: Bettini in gara fa il regista, tutti lo marcano a vista, e così facendo lascia spazio ai compagni, soprattutto a Ballan che trova il modo per vincere il mondiale nel giorno in cui Paolo saluta il ciclismo, sommerso di abbracci e pacche sulle spalle. Da allora è rimasto nel mondo del pedale, dapprima come CT dopo la morte di Ballerini, poi come direttore sportivo di una squadra che non vedrà mai la luce. Alla fine, anziché un ruolo ufficiale, preferisce restare come ambasciatore di alcune aziende. Si diverte spesso in bici, e di tanto in tanto ricorda i bei tempi che furono. E aspetta un erede che in qualche modo possa ripercorrerne le orme, ma in Italia per ora non si vede nessuno all’orizzonte.

In chi mi rivedo oggi? Sicuramente in Alaphilippe.

Già, ma quello è francese. Che le balle ancora gli girano. Ma forse, oggi, girano di più a noi italiani.

(Credits: Getty Images)

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