ANCELOTTI RE DI COPPE: NESSUNO COME CARLO, L’UOMO CHE STA RISCRIVENDO LA STORIA

Submitted by Anonymous on Thu, 05/05/2022 - 18:11
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Redazione
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L’invidia è una brutta bestia, e spesso fa dire cose che con la realtà hanno poco o nulla a che vedere. Carlo Ancelotti da qualche tempo ne ha fatta scaturire talmente tanta tra colleghi e addetti ai lavori (addetti ai lavori?...) che ci sarebbe materiale in abbondanza per scriverci un bel libro.

Non s’è risparmiato nessuno quando c’è stato da gettare fango addosso all’uomo che ha appena raggiunto il record di presenze da allenatore in una finale di Champions League (fate 5: Lippi, Ferguson e Klopp lo seguono a una di distanza): l’ultimo in ordine di tempo è stato Fabio Capello, che ha parlato della “famosa fortuna di Carlo”, quella dalla quale è scaturita poi la poderosa rimonta del Real contro un City che aveva praticamente entrambi i piedi in finale.

Per non parlare di chi l’ha accusato (come se fosse una colpa) di vincere solo con le squadre formate da grandi giocatori, cosa che non gli è riuscita quando ha allenato club senza stelle di tale grandezza. Eppure la storia del futbol è piena di allenatori che hanno vinto con le piccole e che poi hanno steccato con le grandi, a riprova del fatto che non esiste una formula magica e tantomeno un’equazione che garantisca che più una squadra è forte e più possa conquistare trofei. Ancelotti però anche in questo ha sfidato le leggi della fisica: dovunque è andato, salvo rare eccezioni, ha portato a casa ciò che il suo presidente gli chiedeva.

E l’ha fatto sempre in base a ciò che il convento gli passava in quel momento. Ma vincere con tutta la pressione addosso del doverlo fare ad ogni costo significa avere spalle belle larghe. E anche uno stomaco capace di trangugiare qualche boccone avvelenato.

COLLEZIONISTA DI FINALI: È IN ARRIVO L’OTTAVA

Che fosse il re di coppe non era un mistero: due le ha vinte da calciatore nel biennio magico 1989-1990 con la maglia del Milan, al netto di una finale persa nel 1984 con la Roma proprio contro quel Liverpool, di nuovo pronto a incrociare la sua strada.

I Reds dopotutto sono abituati a giocare le finali contro Ancelotti: oltre a quella dell’Olimpico del maggio 1984 si ricordano le due nelle quali sfidarono il Milan nel 2005 (la maledetta notte di Istanbul) e nel 2007, con la rivincita di Atene. Il quarto atto sarà l’occasione per scrivere una volta di più una pagina di storia e per ricordare al mondo chi è davvero Carlo Ancelotti da Reggiolo, profonda provincia emiliana.

Uno che tutti invidiano per la sua calma e la sua saggezza, che mal si sposa con l’invadenza di chi ha pensato in passato di volerne in qualche modo oscurare i meriti (prendete De Laurentiis, che l’ha cacciato appena dopo aver portato la squadra agli ottavi di Champions). Florentino Perez a sua volta fece un errore quando decise di sbarazzarsene troppo presto, nel 2015, forse sull’onda emotiva di una stagione nella quale la casa blanca aveva raccolto meno rispetto a quanto sperato.

L’anno prima però Carlo, re di coppe, aveva portato in bacheca l’agognata decima, quella inseguita per oltre un decennio e mostrata al cielo di Lisbona nel derby con l’Atletico. Appena ne ha avuto l’opportunità, Perez non c’ha pensato su un istante: l’ha richiamato a Madrid e gli ha consegnato una squadra definita a gran voce a fine corsa, con gente non più di primo pelo e un passato recente nemmeno troppo calmo, anzi con qualche inquietudine che non sembrava promettere nulla di buono.

Alla fine i conti in qualche modo Carletto li farà tornare: la Liga è già stata adeguatamente festeggiata (con tanto di sigaro celebrativo, nuovo meme d’ordinanza che ha invaso i social), La Champions potrebbe rappresentare il capolavoro di un ritorno inatteso, ma clamorosamente vincente.

GLI ESORDI SOTTO L’ALA DI SACCHI E L’ETICHETTA “SBAGLIATA”

La verità è che Ancelotti non è un allenatore, e tantomeno un gestore, come qualcuno (spesso con fare denigratorio) l’ha apostrofato a più riprese. Ancelotti è semplicemente un cultore del calcio. Uno che sa usare il bastone e la carota come pochi altri tecnici al mondo hanno dimostrato di saper fare. Uno che entra sempre in spogliatoio in punta di piedi ma ne esce come se fosse davvero un padre per ognuno dei suoi calciatori.

A inizio carriera, dopo lo start nello staff della nazionale di Sacchi e le esperienze a due passi da casa di Reggio Emilia e Parma (dove venne accusato di aver fatto fuori Zola in nome del 4-4-2, all’epoca suo modulo prediletto, naturalmente secondo la scuola di Arrigo), in tanti lo consideravano un allenatore sopravvalutato. L’esperienza non troppo felice alla Juventus, passata alla storia per la rimonta scudetto subita ad opera della Lazio in quel bagnatissimo 14 maggio 2000 a Perugia, non fece altro che inimicarlo ulteriormente agli occhi degli appassionati.

Di lui si diceva all’epoca che fosse anzi un “simpatico” perdente, perché in fondo non alzava mai i toni e con quel fare bonaccione, spesso silenzioso, finiva per non pestare neppure i piedi a nessuno. La sliding door però avvenne in un lunedì di novembre del 2001, quando stava per raggiungere Parma dove c’era già nelle vesti di direttore tecnico proprio Arrigo Sacchi, ma che all’ultimo si convinse a cambiare strada, destinazione Milanello, dove ad attenderlo c’era Adriano Galliani, pronto a consegnargli il Milan del dopo Terim. Fu quel giorno che scoccò la scintilla tra Carletto e il calcio “dei grandi”.

Perché la sua inesorabile scalata verso il gotha del calcio mondiale partì proprio da quella telefonata (era il 5 novembre) e da quella “saggia” decisione di preferire il Diavolo ai Ducali. La prima di una lunga serie di felici intuizioni: l’estate seguente chiese a Pirlo se se la sentisse di arretrare a fare il play davanti la difesa, e da lì cominciò la scalata del Milan verso il trono d’Europa. E all’unisono l’epopea di Ancelotti, destinato a diventare l’allenatore (non certo il gestore) più vincente del calcio europeo.

CAMPIONE OVUNQUE, COL FIGLIO DAVIDE SEMPRE ACCANTO

Solo qualche giorno fa Carlo ha festeggiato il primo titolo di campione di Spagna, completando un percorso fatto di un campionato vinto per ciascuno dei cinque principali tornei continentali (anche qui, nessuno come lui). E dire che in un libro scritto a quattro mani con Alessandro Alciato una quindicina d’anni fa ammise candidamente di “preferire la coppa”, intesa come il palcoscenico per antonomasia, quasi un antidoto contro quella che alcuni hanno definito alla stregua di una sorta di “allergia” ai tornei nazionali.

Dopotutto Carlo ha vinto ovunque, sparando solo una cartuccia: scudetto col Milan nel 2003-04, Premier col Chlesea nel 2009-10, Ligue 1 con il Paris Saint Germain nel 2012-13, Bundesliga con il Bayern Monaco nel 2016-17 e appunto la Liga col Real 2021-22. Titoli di qualità, più che di quantità, cui si sommano però le tre Champions già messe in bacheca assieme alle tre Supercoppe Europee e ai due mondiali per club, più una Coppa Intertoto, titolo vinto nell’estate del 1999 con la Juventus, nonché primo successo ottenuto nella sua carriera da allenatore.

C’è chi dice che per completare l’opera ci vorrebbe anche un trionfo sulla panchina di una nazionale: pochi giorni fa ha detto che gli piacerebbe portarne una a United 2026, il mondiale organizzato da Canada, Messico e USA, magari dopo essersi preso una pausa una volta chiusa la sua seconda avventura madrilena. Dettagli. Perché Ancelotti è già grande così com’è, anche se a Saint-Denis il 28 maggio ad alzare la coppa dalle grandi orecchie fosse il Liverpool di Klopp. Perché in quell’abbraccio col figlio Davide, divenuto suo inseparabile collaboratore da qualche anno a questa parte, e in quelle lacrime mandate in mondovisione dopo aver scaricato la tensione per una rimonta che pareva impossibile c’è tutto l’orgoglio di un lavoro partito da lontano, di una storia sulla quale nessuno vent’anno fa avrebbe scommesso un euro, di una dimostrazione di superiorità resa tangibile dal campo, e non da paroloni o frasi a effetto.

A Perez, nel post partita, ha detto “grazie” per averlo riportato a Madrid. Perez probabilmente dovrebbe essergli molto più grato per ciò che ha reso possibile. Perché un anno fa Benzema, Casemiro, Kroos o Modric erano soltanto giocatori già incamminati sul via del tramonto. Oggi sono di nuovo a un passo dalla vetta più alta d’Europa, e solo perché ce li ha accompagnati Carlo. Per gli invidiosi, uno fortunato o poco più. Brutta bestia, l’invidia.

(Credits: Getty Images)

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