NBA JAYSON TATUM NEL SEGNO DI KOBE BRYANT

Submitted by Anonymous on Tue, 05/31/2022 - 07:41
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Redazione
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Le parole più belle dello sport? Diamine, certamente “game 7”. Gara 7, quella dove non è più concesso sbagliare, quella dove i sogni prendono vita tanto quanto gli incubi nel caso in cui si finisca dalla parte sbagliata della barricata. Jayson Tatum stavolta ha scelto di far parte della prima ipotesi: è andato a sbancare la FXT Arena di Miami prendendosi con forza la prima NBA Finals della sua giovane carriera, dopo averla solo sfiorata nel 2018 quando la furia di Lebron s’abbatté al TD Garden in una gara 7 passata alla storia come una delle più leggendarie di sempre (fu l’ultima vittoria di James con la maglia dei Cleveland Cavaliers).

La rivincita della finale di Conference del 2020, quella disputata nella bolla di Orlando, è servita: gli Heat hanno sprecato il fattore campo al termine di una serie ricca di colpi di scena, con i Celtics già a un passo dal chiudere i conti in gara 6 (quando hanno sprecato l’opportunità di andare sul 4-2 cedendo sul parquet amico) ma bravi a rimettersi in carreggiata prima che fosse troppo tardi.

E hanno vinto senza mai concedere agli avversari la possibilità di mettere il naso avanti al termine di 48’ al solito pieni di alti e bassi, con Butler che ha sbagliato la tripla del sorpasso a 17 secondi dalla fine, ma dopo che Boston era stata avanti anche di 17 punti a metà partita.

JAYSON, UN PLAY-OFF DA FENOMENO ASSOLUTO

Tatum, 24 anni compiuti lo scorso 3 marzo, è più che mai l’uomo copertina della banda di coach Udoka. Il titolo di MVP delle finali dell’Est è un riconoscimento che impallidisce al cospetto dei numeri che ha saputo mettere in gioco nella serie e più in generale nei play-off: nella sua quinta post season in carriera il talento di St. Louis viaggia a 27 punti di media, 6.7 rimbalzi e 5.9 assist, con una percentuale del 44% dal campo che è una media esatta tra il 50% da dentro l’area e il 37,5% dall’arco.

Nelle due gare 7 disputate in questa stagione, la prima contro i Bucks in semifinale e la seconda appunto a Miami, ha segnato rispettivamente 23 e 26 punti, ma riuscendo a trascinare su di se la squadra nei momenti decisivi che hanno definitivamente rotto l’equilibrio. Il tutto in un collettivo che fa proprio della capacità di singoli di mettersi al servizio del gruppo la propria miglior virtù, ma che riconosce in Tatum il suo vero leader carismatico, l’uomo al quale affidare i palloni che scottano.

Un uomo in missione, per dirla alla maniera degli americani: la terza scelta dal draft del 2017 (davanti a lui Fultz, talento inesploso anche perché vittima di una marea di problemi fisici, e Lonzo Ball, bravo si ma decisamente non al suo livello) è la pedina sulla quale il popolo del Massachusetts ha posto le proprie speranze di rinverdire i fasti di un tempo, con le Finals ritrovate dopo 12 anni e la sensazione di essere nel pieno di una crescita che sono qualche mese fa pareva lontana anni luce, eredità di un paio di annate storte che stavano per rimettere tutto in discussione.

BOSTON È RISORTA COME L’ARABA FENICE

Perché Boston la scorsa estate era arrivata a pensare di aver esaurito il proprio ciclo: l’addio di Danny Ainge e la decisione di Brad Stevens di passare dal campo alla scrivania era parsa il preludio a un periodo di vacche magre, con Ime Udoka ritrovatosi seduto su una panchina fattasi piuttosto bollente.

E fino a gennaio, più che uno spogliatoio, quello dei Celtics pareva una polveriera: critiche incrociate tra giocatori e staff tecnico, risultati deludenti e la sensazione di una rivoluzione di nuovo incombente, con la trade deadline pronta a rimescolare le carte. Le polemiche tra Brown e Smart erano parse l’incipit di una fine segnata, invece dopo due mesi e mezzo di accuse e recriminazioni le cose hanno cominciato a prendere una piega differente, tanto da riportare Boston a contatto con il vertice dell’Est fino al punto da chiudere al secondo posto, complice anche una difesa divenuta in fretta la meno battuta della lega.

Tatum in tutto questo ha avuto un ruolo cardine: se prima il dualismo con Brown finiva per renderlo meno libero nelle scelte, una volta ricevuta l’investitura a vero leader del gruppo direttamente dai compagni ha acceso l’interruttore e cambiato marcia. Anche se per l’ultima recita ha avuto bisogno di una ispirazione speciale.

UNA FASCIA AL GOMITO, MA TANTO È BASTATO

Quando a un tifoso Celtics pronunci il nome di Kobe Bryant, sulle prime la reazione è di scherno. Dopotutto il Mamba è stato colui che ha inferto l’ultimo dispiacere in una Finals al popolo biancoverde, con l’incredibile rimonta nel finale di gara 7 del 2010. Sfide epiche contro quello che è stato un fiero rivale, che pure una volta appesi gli scarpini al chiodo pensò bene di invitare Tatum per qualche lezione in palestra, allo scopo di aiutarlo a migliorare nel suo gioco. Accadde tutto nell’estate del 2018 e fu un momento che ancora oggi Tatum ricorda con incredibile nostalgia.

Tutti sanno che Kobe è stato il mio idolo più grado, colui che ha ispirato tutta la mia carriera. Alla vigilia di gara 7, non riuscendo a dormire, ho pensato bene di guardarmi gli highlights delle sue partite più belle di sempre e li mi sono detto che avrei dovuto provare a fare altrettanto per vincere quella per me era la partita più importante della mia vita, almeno sino ad ora. L’ho voluto portare con me sul parquet indossando una fascia al gomito sinistro con il suo numero. L’ho fatto per onorarlo e per condividere con lui un momento tanto complicato e speciale.

Un’ispirazione che ha funzionato, da riproporre (se necessario) anche contro GSW.

(Credits: Getty Images)

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