MONDIALI USA, 22 GIUGNO 1994: ANDRES ESCOBAR, L'AUTOGOL E LA TRAGEDIA

Submitted by federico.tireni on Wed, 06/22/2022 - 15:53
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Che potesse generare un simile clamore non era affatto scontato: il soccer negli USA era agli albori, ma il mondiale stava compiendo quel “miracolo” pensato nel giorno stesso in cui la FIFA decise di assegnare agli Stati Uniti la fase finale della rassegna 1994.

La prima a svolgersi interamente in Nord America, la prima a far sentire gli sportivi e gli appassionati americani parte di qualcosa di più grande e di diverso dal solito football, la disciplina che più di ogni altra animava le giornate degli abitanti dei 50 stati federali (e anche basket, baseball e hockey non è che stessero a guardar). Il calcio era quasi un intruso a quelle latitudini ma seppe farsi largo con grande vigore, tanto da regalare un mese di autentica passione a una nazione che rimase quasi stordita da tutto quel clamore.

E poco importa se, in nome del dio denaro riversato dalle tv (che a confronto con le cifre di oggi impallidisce, ma già all’epoca era tanta roba), le 24 nazionali presenti dovevano giocare a mezzogiorno, con caldo e afa a dir poco insopportabili. Agli sportivi statunitensi quello spettacolo piaceva e la stessa nazionale a stelle e strisce era pronta a giocarsi le sue carte per provare a fare un po’ di strada.

LA GENERAZIONE D’ORO GUIDATA DA VALDERRAMA

L’avventura della nazionale USA si sarebbe fermata agli ottavi, complice l’incrocio decisamente sfortunato col Brasile, che qualche giorno più tardi completerà l’opera a Pasadena battendo l’Italia ai rigori e cancellando un digiuno che durava da 24 anni.

Ma quel gruppo, guidato da un giramondo del calcio che rispondeva al nome di Bora Milutinovic, seppe comunque far parlare di sé: oltre ad Alexi Lalas, eccentrico difensore rocker che di lì a poco sarebbe sbarcato a giocare in Serie A col Padova, la rosa non era affatto male, con elementi del calibro di Eric Wynalda, Marcelo Balboa, Tab Ramos, John Harkes, Cobi Jones, Tony Meola e altri ancora, conosciuti anche in ambito europeo. Il pari al debutto con la Svizzera aveva soddisfatto la curiosità e le attese della vigilia, ma la gara contro la Colombia, grande favorita del girone A somigliava già a una gara da dentro o fuori per la nazionale sudamericana, che aveva perso per 3-1 all’esordio contro la Romania di Hagi,

Raducioiu e Dumitrescu. Francisco Maturana, commissario tecnico dei Cafeteros, sapeva di dover fare i conti con una pressione enorme da dover sopportare, poiché la Colombia era considerata una delle possibili favorite per la vittoria finale, forte di un percorso negli anni precedenti che aveva dato modo a tanti addetti ai lavori di inserirla nel novero delle formazioni più quotate. L’apogeo di una generazione che aveva in Valderrama, Asprilla, Rincon, Valencia, Herrera ed Escobar le sue stelle più luminose.

IL DEBUTTO SHOCK, L’AUTOGOL CHE HA CAMBIATO LA STORIA

Proprio Andres Escobar era tra i giocatori più attesi della rassegna americana. Con l’Atletico Nacional di Medellin si era fatto conoscere anche fuori dai confini nazionali, divenendo ben presto uno degli elementi cardine della nazionale di Maturana, che l’aveva praticamente visto crescere allenandolo proprio con l’Atletico.

Nel suo futuro ci sarebbe stato quasi sicuramente un trasferimento in Europa, ma quel mondiale rappresentava una tappa intermedia cruciale: non era andato benissimo nella gara d’esordio, come del resto tutti i compagni, ma con gli USA l’intenzione era di rimediare.

Sfortuna volle per lui che al 35’, su punteggio di 0-0, su un innocuo traversone di Harkes fu proprio un suo intervento scomposto a ingannare Oscar Cordoba, che nulla poté per evitare che la sfera finisse in fondo al sacco per il più beffardo degli autogol. Gli USA nella ripresa avrebbero trovato anche il 2-0 con Stewart, e a poco servì la rete a tempo scaduto di Valencia, se non a rendere meno amaro nel punteggio il secondo stop della Colombia in quel mondiale.

Le speranze di passaggio del turno erano ormai appese a un lumicino: Svizzera e USA erano già qualificate, mentre alla Romania sarebbe bastato battere i padroni di casa per garantirsi il passaggio agli ottavi. Così il 2-0 con il quale i Cafeteros superarono gli elvetici non fu sufficiente per rimetterli in corsa: tra lo stupore del mondo del calcio, la Colombia era eliminata dal mondiale già al termine del primo turno.

ESCOBAR E QUELL’INCUBO RICORRENTE

Nel paese si respirava da tempo un’aria cupa e di mestizia. Nel dicembre del 1993 era stato assassinato Pablo Escobar, potente uomo del cartello della droga di Medellin, tra l’altro finanziatore nemmeno troppo occulto della locale formazione dell’Atletico Nacional.

La lotta senza esclusione di colpi per accaparrarsi il potere dopo la morte di Pablo, quindi la faida tra i cartelli di Medellin e Calì, fece piombare la nazione nel terrore tra attentati di ogni genere e violenze fuori controllo. L’eliminazione della nazionale dal mondiale fu un ulteriore colpo al morale di un popolo che viveva nella paura. E soprattutto contribuì a far perdere ingenti somme di denaro a tante organizzazioni malavitose, che mai si sarebbero attese di vedere la Colombia eliminata al primo turno.

Per regolare i conti non c’era che una via: trovare un capo espiatorio e “sacrificarlo” a mo’ di lezione per le generazioni future. Andres Escobar, l’autore dell’autogol nella sfida con gli USA, era il bersaglio più facile e scontato. Alcuni arrivarono persino a sconsigliargli di fare ritorno a Medellin, la città dove abitava assieme alla fidanzata Pamela, ma lui rispose che il calcio non poteva essere paragonato alle tragedie che interessavano il paese in quel periodo e che si doveva guardare avanti, senza lasciarsi paralizzare dalla rabbia o continuare a far parlare la violenza.

In quelle parole però c’era un fondo di verità che nascondeva un velo di paura: sapeva di essere un bersaglio sensibile, ma Andres volle far passare il messaggio che tutto fosse normale. Un azzardo che avrebbe pagato con la vita.

L’OMICIDIO CHE SCONVOLSE IL MONDO

L’autorete con gli USA avvenne intorno alle 17 del 22 giugno 1994 nei dintorni di Los Angeles, a Pasadena. Dieci giorni più tardi, il 2 luglio, Escobar aveva già fatto ritorno a Medellin e verso l’ora di pranzo si recò in un locale in zona Las Palma, chiamato “El Salpicon Bar”, come tante altre volte aveva fatto in vita sua.

Ma l’aria in quelle zone era piuttosto tesa: non appena venne riconosciuto, alcuni connazionali non mancarono di rimproverarlo per quell’autogol che aveva indirizzato la sfida del Rose Bowl sui binari meno desiderati. Andres sapeva che da quel momento in poi avrebbe dovuto convivere con lo spettro della sua giocata, ma pensò che prima o poi l’avrebbero lasciato stare e gli avrebbero dato una sorta di “tregua”.

La ferita era però ancora troppo fresca e in quel momento l’unica cosa che poteva fare era abbozzare e sopportare le critiche e gli insulti. Non poteva sapere che una volta uscito dal locale ad aspettarlo avrebbe trovato almeno 4 persone, stavolta decise ad andare oltre le semplici parole: partirono subito con gli insulti, ma una volta che Escobar si fece largo tra loro, deciso a raggiungere in fretta la propria auto, una scarica di proiettili lo colpì alle spalle sotto gli occhi sgomenti dei suoi amici.

L’intervento dei mezzi di soccorso non poté che constatarne il decesso. L’auto utilizzata dai malviventi per scappare subito dopo l’accaduto venne ritrovata poco dopo nei pressi dell’aeroporto, risultando però rubata. Un anno dopo Humberto Munoz Castro, un autista con diversi legami con la mafia locale, verrà condannato a 43 anni (e 11 di reclusione, poi divenuti 5) dopo aver confessato di aver eseguito materialmente l’omicidio di Andres.

Solo nel 2018 verrà riconosciuto come mandante il narcotrafficante Santiago Gallon Henao, che sarebbe stato presente sulla scena del delitto assieme al fratello David. Escobar alla fine pagò la cauzione per tutti: finì in mezzo a una faida tra clan e cartelli che dilaniò la Colombia intera, pagando oltre ogni ragionevole prezzo per uno sfortunato autogol.

(Credits: Getty Images)

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