40 ANNI DI SPAGNA '82: ITALIA-BRASILE 3-2: PIÙ FORTI DEI PIÙ FORTI AL MONDO

Submitted by Anonymous on Tue, 07/05/2022 - 16:34
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Redazione
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C’è un prima e un dopo Italia-Brasile. Così come c’è stato un prima e un dopo Italia-Germania 4-3, la partita del secolo, quella che tenne col fiato sospeso milioni di italiani davanti alla tv in bianco e nero quando di solito i bambini erano già a letto da un pezzo. Italia-Brasile invece andò in scena alle 17,15 di un pomeriggio di lunedì che nessuno ha mai più dimenticato.

Perché tutti ricordano dove si trovavano quel giorno, con chi stavano guardando la partita, con chi si abbracciarono dopo che Paolo Rossi da Prato, 26 anni da compiere poco meno di tre mesi più tardi, decise che era giunta l’ora di prendersi la scena e trascinare i compagni verso un titolo mondiale sino a quel momento soltanto sognato.

È la partita simbolo non soltanto di quel mondiale, ma forse dell’intera storia della nazionale. Perché rappresentò la perfetta esaltazione del modo di giocare all’italiana, che non necessariamente contemplava difesa e contropiede (una volta lo chiamavano “catenaccio”, ma era per lo più un modo dispregiativo usato dagli invidiosi per sminuire certi risultati), ma piuttosto grande acume tattico e capacità di adattarsi al contesto e agli avversari, oltre poi a far leva sulle proprie virtù.

Bearzot, solo in parte redento dopo il successo per 2-1 sull’Argentina, aveva studiato un piano esemplare: il Brasile faceva paura, lui lo affrontò attaccando, anziché difendendosi. Lo sfidò sul terreno più congeniale ai fuoriclasse di cui Telè Santana faceva sfoggio: loro erano bravissimi ad attaccare e spesso godevano del fatto di poterlo fare trovando avversari tutti rintanati nella propria metà campo. L’avesse fatto quell’Italia, sarebbe stata una disfatta annunciata.

QUEL BRASILE, FORTE COME NESSUN ALTRO (PRIMA E DOPO)

Presi tutti assieme, quelli che vestivano la maglia verdeoro in quel mondiale di Spagna erano probabilmente superiori a quelli che 12 anni prima misero fine ai sogni di gloria Azzurri nella finale dell’Atzeca.

Seleçao meravigliao

è una rima scontata ma che rende bene l’idea della qualità, dell’estro, della fantasia e del potenziale tecnico di cui i brasiliani potevano godere. Quel Brasile era considerata la squadra più bella e forte del mondo, pronta a sfatare il tabù che voleva le nazionali sudamericane sempre perdenti nell’edizioni della Coppa del Mondo disputate nel continente europeo.

Quel gruppo era un concentrato di talento mai visto prima: Eder, Falcao, Socrates, Cerezo, Junior e Zico erano quanto di meglio il futbol bailado aveva saputo offrire al globo da una decina d’anni a quella parte. Che poi per il Brasile 12 anni di digiuno somigliavano a un’attesa infinita: da quando Pelè staccò più in alto di Burgnich all’Azteca c’era una nazione intera che sognava solo il momento in cui scendere di nuovo in strada a far festa, dimenticando anche i dolori di una dittatura che stava flagellando il Paese come non mai.

In Italia la situazione era un po’ più sotto controllo, ma nemmeno tanto: gli anni di piombo stavano ancora estendendo la loro ombra, e il calcio al solito serviva per distrarre le masse e regalare un po’ di ottimismo. La sfida contro quel Brasile, però, non prometteva nulla di buono.

UNA MISSIONE IMPOSSIBILE, MA FORSE ANCHE NO

La mattina del 5 luglio 1982, La Stampa titolò in prima pagina

Miracolo Azzurro?

Quel punto interrogativo era il confine tra la paura di fallire e il coraggio di spingersi oltre i propri limiti. Esserci arrivati dopo l’exploit ottenuto con l’Argentina aveva contribuito a rasserenare il clima intorno alla nazionale di Bearzot: il disfattismo delle settimane precedenti era stato spazzato via in un amen, e sebbene ardua l’impresa era ritenuta possibile.

Il problema semmai era rappresentato dal fatto che il Brasile aveva superato l’Argentina per 3-1 nel secondo match del girone, di fatto garantendosi la possibilità di accedere alle semifinali anche con un pari. Era l’Italia ad essere condannata alla vittoria: un pari, seppur l’avrebbe estromessa dal mondiale imbattuta, non avrebbe portato nulla in dote.

Quel Brasile poi era l’unica nazionale delle 12 rimaste in ballo ad aver vinto tutte e 4 le partite disputate. Qualche punto debole però lo aveva, mostrandosi un po’ più umana di quanto le folle volessero far credere: in difesa ad esempio qualcosina concedeva, se è vero che solo la modesta Nuova Zelanda non era stata capace di far gol a Valdir Peres.

E in generale l’atteggiamento tattico di Santana era improntato a un gioco ultra offensivo, che se attaccato con ripartenze ben assestate (e in questo “italians did it better”) poteva andare sovente in difficoltà. Con l’Argentina l’Italia fece male ai campioni del mondo in carica con due favolose azioni di contropiede, ma in generale perché non rinunciò mai ad attaccare. Era quella la via maestra da seguire anche in vista della sfida che avrebbe cambiato per sempre la storia del mundial ’82.

LE SCELTE VINCENTI DI BEARZOT, LA REDENZIONE DI ROSSI

Di motivi per cambiare uomini e assetto il “Vecio” non ne aveva alcuno. Come da copione in campo andarono gli stessi undici visti all’opera con l’Argentina, ma con un vantaggio non di poco conto: le 72 ore in più di riposo rispetto ai colleghi brasiliani. Che giocando a 40 gradi e passa, nella calura infernale di metà pomeriggio della Catalogna di quell’estate 1982, non era propriamente un dettaglio, benché i brasiliani a certe temperature esotiche c’avevano fatto l’abitudine.

Magari meno alle marcature avversarie, studiate a puntino dal commissario tecnico: Gentile, dopo aver annullato Maradona, prese in consegna Zico, Oriali venne messo sulle tracce di Eder, e così facendo avrebbe cambiato notevolmente le sue abitudini, finendo per giocare largo a destra (Eder partiva da sinistra: per un giorno Lele, anziché il mediano, fece l’esterno basso).

A Collovati venne assegnato Serginho, e il resto del lavoro se lo sarebbero dovuto smazzare Tardelli (con un occhio vigile su Falcao) e Antognoni, primo ad uscire sul portatore di palla brasiliano (solitamente Junior o Socrates). Alle 17,15, insomma, comincia la partita ma Bearzot nella sua testa già la conosce tutta. Sa ad esempio che Paolo Rossi, sin lì oggetto quasi misterioso della spedizione italiana, ha deciso di tenersi tutto il buono che c’è per quei 90’ che possono cambiare la carriera di un giocatore.

Invero la partenza del numero 20 è da dimenticare: perde tre volte palla al limite dell’area avversaria, poi ciabatta una conclusione apparentemente semplice, facendo imprecare milioni di italiani. Ma quando al 5’ Cabrini pennella dalla sinistra un pallone che chiede solo di essere spinto in rete, nemmeno ha bisogno di saltare: di testa, lasciato libero di colpire, infila Valdir Peres sul secondo palo. Bearzot in panchina gongola: il “suo” uomo s’è destato, la vita è rifiorita nell’afa del Sarrìa.

IL PRIMO TEMPO PERFETTO, ANCHE NEL PUNTEGGIO

Non era la prima volta che il Brasile andava sotto nel punteggio in quel mondiale: gli era capitato già contro URSS e Scozia, ma poi aveva trovato agevolmente il modo di rimediare. Per ristabilire le cose nel loro ordine naturale bastò pazientare 7’: illuminante finta e imbucata di Zico per Socrates, tiro rasoterra sul primo palo e Zoff è sorpreso e battuto.

La sensazione sul momento è di aver sognato per un po’, ma di essere destinati a finire male. Il Brasile però a volte si specchia troppo e quando Cerezo effettua un passaggio pigro e un po’ a casaccio per vie orizzontali, di quelli che già al primo giorno di scuola calcio ti insegnano a non fare, c’è il buon Rossi che da falco ritrovato s’avventa sulla sfera e fulmina Peres per la seconda volta.

Il concetto era chiaro: la Seleçao in difesa non era sempre irreprensibile, ma l’Italia era stata fenomenale nel saper cogliere le due chance offerte e trasformarle in gol. A quel punto Santana capisce che c’è bisogno di aumentare gli sforzi: gli Azzurri si mettono un po’ più sulla difensiva, anche perché il caldo è opprimente e le forze a lungo andare cominciano a mancare. Al riposo il 2-1 è manna dal cielo, con qualche protesta brasiliana per un contatto non fischiato ai danni di Zico e in generale un gioco troppo spezzettato. Ma è il copione scelto dall’Italia, e non potrebbe essere altrimenti.

LA GRANDE SOFFERENZA, L’ENNESIMA RINASCITA

Già qualche minuto prima dell’intervallo c’è stato bisogno di mettere in campo forze fresche: Collovati ha preso un colpo alla caviglia e Bearzot ha pensato bene di spedire nell’agone Giuseppe Bergomi, per tutti lo “zio”, perché seppur diciottenne sfoggia un baffo che lo fa sembrare molto più anziano dell’età che sta scritta sulla carta d’identità. Quello che riemerse dagli spogliatoi fu invece un Brasile ancor più offensivo: Santana portò Junior a centrocampo, di fatto decidendo di mollare del tutto gli ormeggi.

A far paura però nella prima parte della ripresa fu soprattutto Serginho, sul quale Zoff chiuse due volte lo specchio in uscita. Due conclusioni da fuori di Eder, invece, non colsero di sorpresa il capitano azzurro. Ma con l’Italia sempre più schiacciata a difesa dello striminzito vantaggio, al 23’ una bella giocata di Cerezo liberò al tiro Falcao dal limite dell’area, con la difesa azzurra colta un po’ di sorpresa: la palla calciata dal romanista s’infilò alle spalle di Zoff, forse beffato anche da una leggera deviazione di Bergomi.

L’esultanza sfrenata di Falcao fu una coltellata diretta al cuore degli italiani: pensare di mettere nuovamente la freccia in quel momento non era contemplato nemmeno nei sogni più reconditi. Sarebbe servito ancora una volta un regalo della difesa verdeoro, ancora di Cerezo, che in un eccesso di zelo appoggiò di testa un pallone sul quale Valdir Peres arrivò in ritardo, consegnando all’Italia il primo corner della partita.

E dall’angolo calciato da Conti e respinto da Oscar, Tardelli tentò la botta da fuori, di fatto fornendo un assist al bacio (involontario) per Graziani, che fu però anticipato dal solito Rossi, libero (di nuovo) di colpire e bravo a fulminare di destro il portiere avversario. La chiamata di un fuorigioco che non c’è illude i brasiliani, che pochi minuti più tardi saranno salvati proprio da una chiamata errata dell’assistente di Honk Hong Cham Tam-Sun sul gol (regolarissimo) di Antognoni, il più famoso tra tutti quelli annullati della storia della nazionale.

L’ULTIMA PAROLA È DEL TACITURNO ZOFF

A cantar vittoria troppo presto si fa peccato, ma dopo la redenzione di Rossi restava ancora un conto da regolare. Perché il mondiale di Dino Zoff fino a quel momento non fu proprio esente da sbavature: il gol preso col Camerun aveva suscitato malumori, la punizione battuta a sorpresa da Passarella idem. E anche il gol di Socrates era sembrato più un errore del capitano (che lasciò il primo palo scoperto) che una giocata d’astuzia del “dottore”.

Ma quando in pieno recupero Oscar colpì di testa sugli sviluppi dell’ultima Ave Maria calciata da Eder, il vecchio Zoff compì la parata più bella sua carriera. Come riuscì a fermare la sfera è ancora una questione che nemmeno la scienza ha saputo spiegare: 99 volte su 100 quel pallone finisce in rete, lui lo fermò sulla riga e lo portò via all’istante. Erano le 19 e spiccioli del 5 luglio 1982: dopo tanti giorni difficili, le lacrime degli italiani erano spese finalmente per qualcosa di meravigliosamente bello e unico al tempo stesso.

(Credits: Getty Images)

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