40 ANNI DI SPAGNA 82: CAMPIONI DEL MONDO, LA FAVOLA E IL SUO LIETO FINE

Submitted by federico.tireni on Mon, 07/11/2022 - 14:36
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“Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”.

Di tutti i telecronisti che hanno attraversato decadi di calcio italiano, Nando Martellini è stato forse il più fortunato di tutti. Perché nel 1970 in Messico era andato come seconda voce Rai, ritrovandosi di colpo catapultato a titolare delle partite della nazionale, perché Nicolò Carosio eccedette con qualche epiteto (o almeno così vuole la leggenda) rivolto a un guardalinee etiope nel corso della telecronaca di Italia-Israele, cosa che suscitò profondo sdegno nella (già allora) stampa perbenista italiana.

Dopo quel mondiale nessuno gli avrebbe tolto la nazionale, ma già aver avuto la fortuna di raccontare la semifinale dell’Atzeca bastava per celebrarne una carriera ad altissimi livelli. Un’altra Italia-Germania Ovest, però, lo avrebbe consegnato definitivamente alla leggenda. E tutto questo utilizzando una frase semplice, pulita e diretta: ripetere tre volte “campioni del mondo” non richiede chissà quale esercizio di preparazione, ma rientra in un’aurea di grandezza, stupore e magnificenza di cui tante volte ci si dimentica. Perché semplice è bello, e spesso pure tremendamente liberatorio.

BERGOMI, COELHO E UNA TRAMA INSOSPETTABILE

L’emozione che pervase le corde vocali di Martellini tradì un piccolo particolare: il bravo giornalista è colui che anticipa le mosse e di fatto le porta all’attenzione del telespettatore prima che queste avvengano, e forse è per questo che prima di esclamare per tre volte la fatidica frase pronunciò il nome di Gentile, colui al quale era destinato il passaggio di Bergomi.

Gentile però quella palla non la toccherà mai, perché con tempismo inaudito il brasiliano Coelho anticipò il difensore azzurro, brandendo la sfera tra le mani e alzandola al cielo in segno di vittoria. Consegnando di fatto alla storia un altro piccolo dettaglio che solo una settimana prima nessuno avrebbe osato immaginare: l’ultimo pallone di quel mondiale lo toccò Giuseppe Bergomi da Settala, hinterland milanese, nato il 22 dicembre del 1963, appena maggiorenne ma con un baffo d’ordinanza che lo faceva sembrava più vecchi di almeno 10, se non 20 anni. Per come giocava, forse più “vecchio” lo era per davvero.

La domenica precedente, Beppe non aveva messo ancora piede nel mundial. Ma un giorno dopo, lunedì 5 luglio, quasi alla fine del primo tempo fu invitato in fretta e furia da Bearzot a prendere il posto di Collovati, costretto ad abbandonare la sfida col Brasile dopo un colpo ricevuto alla caviglia. Da quel momento, Bergomi non avrebbe più abbandonato il campo. Granitico su Serginho, asfissiante su Lato, attento e tempestivo su Rummenigge. Una favola tra le tante.

CABRINI E IL RIGORE DI CUI NON C’È TRACCIA

Cos’altro ci sarebbe da scrivere ancora di quella finale, roba che la narrativa applicata al pallone non abbia già detto? Forse che è stata la finale meno combattuta tra tutte quelle disputate nella storia del mondiale, tradita solo dalla stoccata nel finale con la quale Paul Breitner rese meno amaro il passivo per i tedeschi. Che nel primo tempo tennero botta soprattutto per via degli errori degli Azzurri, su tutti il rigore ciabattato da Cabrini, con l’indimenticabile nuvola bianca di gesso a testimoniare il tocco decisamente sporco del fluidificante.

Quel rigore che il bell’Antonio neppure avrebbe dovuto tirare, poiché il rigorista scelto era Antognoni, che pure era in tribuna con un piede destro gonfio come una pagnotta. Di tutti gli errori dagli undici metri di cui la storia della nazionale fa tristemente sfoggio (e si che sono parecchi), quello del “Bernabeu” non trova posto in alcuna nicchia.

È un rigore rimosso, dimenticato, ininfluente e per questo invisibile. Merito di quella squadra che, una volta riemersa dagli spogliatoi, fece un sol boccone di una Germania Ovest uscita a brandelli dalla battaglia di Siviglia di tre giorni prima.

LO SCHIAFFO DI BEARZOT, IL FINALE GIÀ SCRITTO

Leggenda vuole che negli spogliatoi Bearzot diede uno schiaffo a Cabrini, invitandolo a rimuovere quell’errore e a convincersi che non sarebbe risultato decisivo. Nella ripresa il numero 4 cambiò letteralmente passo, ma con lui tutti i compagni. Che per sbloccare l’empasse si affidarono al solito Rossi, ormai in stato di grazia perpetua.

Molto del merito però fu di Tardelli, abile a calciare rapidamente una punizione concessa per un fallo ai danni di Oriali. L’apertura sulla destra trovò Gentile liberissimo di crossare, e Rossi più che dei difensori avversari dovette “preoccuparsi” di anticipare proprio Cabrini, che voleva riscattare l’errore dal dischetto, ma che si “fece da parte” per consentire a Paolo di insaccare di testa il sesto pallone del suo mondiale, il terzo appunto di testa (ed era alto appena 174 centimetri…).

Il vaso era scoperchiato, le scalette della tribuna del “Bernabeu” cominciavano a colorarsi di azzurro. Un azzurro intenso come l’urlo col quale Tardelli squarciò il cielo sopra Madrid infilando col mancino Schumacher, e chiudendo al meglio una ripartenza a destra che portò a duettare Bergomi e Scirea, con quest’ultimo rientrato dal fuorigioco un attimo prima del dovuto, lesto poi a servire il compagno di club e consegnarlo alla storia.

Mancavano 20’, ma la Germania non c’era più. E ancora una volta a destra l’Italia fece danni, con Conti scatenato e Altobelli lesto a sfruttare l’occasione della vita. “Spillo” era entrato dopo una manciata di minuti per sostituire Graziani, infortunatosi a una spalla, e prima del triplice fischio lasciò il posto a Causio per una passerella con Bearzot volle dedicare a uno dei suoi totem.

IL RISCATTO SOCIALE DI UNA NAZIONE

Di quella partita, di quella squadra, di quel mondiale, s’è detto e scritto di tutto. E il fatto che a distanza di quarant’anni ci siano persone disposte a sacrificare una sera della loro estate per godersi in poltrona lo spettacolo di uno dei tanti docufilm dedicati all’impresa testimonia quanto quell’evento sia rimasto nella memoria collettiva degli italiani, forse quello che più di qualunque altro ha permeato la mente e la fantasia di un’intera nazione. Che ringraziò quel manipolo di talenti per aver fatto loro dimenticare le fatiche e i problemi di tutti i giorni, in un periodo storico che definire tribolato è poco.

La vittoria del mundial servì da riscatto sociale, anche perché in fondo quella nazionale seppe smentire i tanti detrattori, dimostrando che non per forza di cose l’erba dei vicini era più verde. Una nazionale messa in croce prima ancora di scendere in campo, ma capace di sorprendere, emozionare e forse anche insegnare al mondo intero che certi valori non si misurano su un campo da calcio, ma vanno ricondotti a una dimensione più umana e di vita vissuta.

IL LASCITO DI GAETANO, ENZO, PAOLO E CESARE

Di quella squadra oggi restano 20 uomini che non perdono occasione per sfogliare le pagine del libro dei ricordi. Anche se poi a far rumore sono soprattutto quelli che non ci sono più, da Scirea che lasciò tutti di stucco nel settembre del 1989, rimasto vittima di un incidente stradale in Polonia agli albori della sua nuova vita da osservatore per la Juventus, a Bearzot che ha lasciato i suoi ragazzi nel 2010, quei ragazzi che portarono a spalla il feretro del loro amato “Vecio”.

E poi Paolo Rossi, da quella notte magica di Madrid per tutti Pablito, che nel dicembre del 2020 si è arreso a una beffarda malattia, lasciando un vuoto enorme in tutti i cuori gli italiani. E varrebbe la pena ricordare anche Cesare Maldini, vice di Bearzot, presenza discreta ma quanto mai preziosa.

Quella sera al “Bernabeu” l’Italia non vinse “solo” un mondiale, ma lasciò un segno nella storia del suo vissuto più profondo. Non era “solo” calcio, era qualcosa che andava oltre. E forse mai come quel giorno un’intera nazione si sentì unita, come aveva tanto desiderato di vederla Camillo Benso Conte di Cavour 120 anni prima. Ci voleva un pallone per riuscire dove molti avevano fallito. Ci voleva quella nazionale per ricordare al mondo intero che la vita, a volte, sa essere davvero meravigliosa.

(Credits: Getty Images)

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