LA CRISI DEL CICLISMO ITALIANO: POCHI INVESTIMENTI, POCHI PRATICANTI E COSTI TROPPO ALTI

Submitted by federico.tireni on Tue, 07/26/2022 - 07:18
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Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori. E pure di ciclisti, a guardare un passato illustre che vedeva il pedale tricolore costantemente ai vertici del ciclismo internazionale. Ma da qualche anno, anzi da almeno un decennio la bici non è più quel terreno di caccia che ha dato lustro all’Italia nel mondo. Un po’ perché la concorrenza è aumentata a dismisura (quando mai sloveni, australiani o danesi dominavano le corse a tappe?), un po’ perché la globalizzazione ha prodotti esempi virtuosi all’estero, decisamente poco edificanti dalle Alpi in giù.

E perché a furia di specchiarsi e sentirsi belli si è finito per perdere il valore della bellezza stessa, sfociando il tutto in un mare di “vorrei, ma non posso” che hanno portato ai recenti risultati negativi. L’ultimo termometro l’ha offerto direttamente il Tour de France, dove da anni un italiano non vince una tappa (l’ultimo a farlo, il 27 luglio 2019, fu Vincenzo Nibali): fanno 64 frazioni di digiuno, roba che solo a pensarla una manciata di anni fa non c’avrebbe creduto nessuno.

LA CONCORRENZA È AUMENTATA (ED È AGGUERRITA)

Indagare sulle cause di una crisi così perpetua è esercizio tutt’altro che semplice. L’Italia del pedale, almeno a livello professionistico, in realtà è ancora ben ancorata al centro del villaggio: la metà dei tecnici e degli allenatori arriva dal Bel paese, a riprova di una stima e di una fiducia conclamata dai tanti team esteri del settore.

E anche a livello numerico i corridori pro non sono affatto pochi, ma mancano le punte di diamanti di cui dispongono altre nazioni. In Italia non c’è quello che Van Aert è per il Belgio, Pogacar per la Slovenia, Alaphilippe per la Francia, Vingegaard per la Danimarca, Hindley per l’Australia, Bernal per la Colombia, Pidcock per la Gran Bretagna e via dicendo. Forse solo la Spagna in questa fase storica sta messa quasi come (se non peggio di) noi, ma la cosa non deve servire da alibi.

Il movimento italiano è in ambasce e il ricambio generazionale stenta ad arrivare. Tra pochi mesi poi, con il ritiro di Nibali, verrà meno anche l’ultimo salvatore della patria, colui il quale nell’ultimo decennio ha tenuto su la baracca vincendo quattro grandi giri e svariate classiche. L’Italia del pedale resterà senza il suo parafulmine e con il timore di finire ulteriormente in un limbo dove pure c’è finita dentro con tutti i piedi da tanto, troppo tempo.

LA MANCANZA DI UNA SQUADRA WORLD TOUR, MA NON SOLO

Da quando nel 2005 è stato creato il Pro Tour, progressivamente le grandi nazioni storiche del ciclismo hanno visto depauperato il proprio patrimonio, anche perché nel frattempo paesi emergenti hanno cominciato a sfornare talenti. Tra le grandi “colpe” attribuite all’Italia c’è la mancanza di una formazione World Tour, cioè di una squadra appartenente al circuito professionistico d’elite, con licenze istituite a partire dal 2011.

Delle attuali 18 formazioni presente, nessuna batte bandiera tricolore: i costi notevoli sono un deterrente (in Italia la fiscalità impone un aggravio pari a circa il 70% rispetto ad altri paesi), ma non spiegano tutta la verità e tantomeno la mancanza di progetti seri e futuribili. Di squadre Pro Tour ce ne sono appena tre (Eolo-Kometa, Drone-Androni e Bardiani-CSF-Faizanè) ma con ambizioni diverse rispetto ad altre che sono delle vere e proprie World Tour mascherate (vedi Alpecin-Fenix, Arkea.Samsic e TotalEnergies), benché rappresentino l’unico sbocco per giovani talenti in rampa di lancio.

Il vero problema è poi da ricercare nell’assenza di una programmazione credibile nel campo delle corse Under 23 e più in generale delle categorie Dilettanti e Juniores: la scarsa visibilità induce gli sponsor a scappare e la federazione non sempre riesce ad arrivare a coprire i buchi lasciati da molti organizzatori, stanchi di allestire competizioni senza alcun ritorno o beneficio.

IL CICLISMO OGGI NON È PER TUTTE LE TASCHE

Si potrebbe indagare tranquillamente sulla mancanza di strutture (un solo velodromo al chiuso in tutta Italia può bastare?) e sulla pericolosità delle strade che induce tante famiglie a scoraggiare i propri figli a praticare il ciclismo sin da piccoli, ma sarebbe comunque come cercare giustificazioni a un movimento che non ha saputo reggere il passo con la modernità e il cambiamento.

Una volta la bici era un bene accessibile a tutti, oggi fare ciclismo comporta enormi investimenti per le famiglie e per i privati in generale, perché le aziende hanno capito che il business del pedale è una cosa seria (specie dopo la pandemia) e hanno deciso di puntare sulla qualità dei prodotti, contribuendo a creare una schiera di appassionati e corridori amatoriali desiderosi di acquistare bici o accessori all’ultima moda piuttosto che “aiutare” il movimento professionistico.

È l’altra faccia della medaglia, ma che dice tutto di come vadano ormai le cose in Italia: a un aumento vertiginoso dei praticanti fa da contraltare la diminuzione costante degli atleti che puntano a diventare professionisti. E con minori possibilità di selezione, giocoforza anche la qualità degli stessi perde consistenza. Tanto che i corridori più promettenti il più delle volte sono costretti a emigrare all’estero, ma posti in subordine agli atleti del posto.

E non passi inosservato anche un altro dato: la progressiva sparizione di molte società giovanili ha finito per restringere il campo delle opportunità anche in quelle regioni storicamente piene di giovani atleti, vedi Toscana e Veneto, che non riescono più a fungere da serbatoio nazionale come avveniva in passato. E dal Sud arrivano sempre meno giovani, perché la vita è più cara e certi sacrifici non ne valgono la pena.

LE (POCHE) CERTEZZE: GANNA DA RITROVARE, BETTIOL DA CONSERVARE

Cosa aspettarsi allora dal futuro a breve o medio-lunga scadenza? Il Tour ha messo a nudo le pecche di un movimento che faticherà a tenere il passo col resto del mondo. Perché se anche una certezza come Filippo Ganna comincia a venire meno, allora c’è poco da stare allegri: il cronoman di Verbania, al debutto alla Grand Boucle, non ha brillato nelle due frazioni contro il tempo, palesando una condizione non ottimale e forse finendo per pagare dazio a una gestione da parte del team Ineos Grenadiers che ha lasciato a desiderare (e la distrazione sul fatto di puntare o meno al record dell’ora non ha aiutato).

Solo Alberto Bettiol ha battuto un colpo, a un passo dal trionfo a Mende (e dopo un inverno complicato), e magari se la condizione in futuro lo assisterà potrà ancora puntare a qualcosa di importante. Per il resto ci sono stati un Giulio Ciccone che continua a rimandare l’appuntamento con il salto di qualità, un Damiano Caruso che ha pagato l’errore della Bahrain di non averlo portato al Giro e qualche giovane velocista (Luca Mozzato, Alberto Dainese e Andrea Pasqualon) che merita ancora un po’ di credito, vista l’età.

I PROSPETTI DEL FUTURO: EPPUR QUALCOSA SI MUOVE

Nel 2021 l’Italia del pedale aveva sognato grazie a Sonny Colbrelli, che pure ora non sa nemmeno se potrà più risalire in bici dopo il malore accusato lo scorso marzo al Giro della Catalogna. In un momento storico tanto delicato, peggiore notizia non avrebbe potuto esserci, perché trovare un degno erede è impresa davvero ardua.

Gianni Moscon avrebbe tutto per diventarlo, ma il suo 2022 è stato orribile al punto da chiedersi se davvero potrà mai mostrare ciò di cui è capace. Fausto Masnada, Elia Viviani, Davide Formolo, Matteo Trentin, Giacomo Nizzolo, Diego Ulissi, Andrea Bagioli e Davide Ballerini rimangono corridori su cui vale la pena investire quantomeno per le gare di un giorno, così come su Edoardo Affini e Matteo Sobrero a cronometro.

E poi ci sono Alessandro Covi e Lorenzo Fortunato, rivelazioni delle ultime due edizioni del Giro d’Italia, a tirare la futura generazione di talenti appena affacciatasi nel mondo dei grandi: se Filippo Zana ha già sorpreso tutti, vincendo il campionato italiano, gente come Filippo Baroncini (campione del mondo Under 23), Samuele Battistella, Giovanni Aleotti, Alessandro Fancellu e Antonio Tiberi potrebbero realmente riconsegnare all’Italia del pedale molta della nobiltà perduta. Ma non dipenderà soltanto da loro: il movimento nazionale dovrà assecondarli, poi l’ultimo colpo di pedale spetterà a chi vorrà diventare grande in mezzo ai grandi.

(Credits: Getty Images)

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