RUGBY: LA CRISI (SENZA FINE) DEGLI ALL BLACKS

Submitted by federico.tireni on Tue, 08/30/2022 - 07:11
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Redazione
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Tre sconfitte casalinghe consecutive per buona parte della popolazione neozelandese rappresentano una sensazione mai provata prima. Tre sconfitte di fila tra le mura amiche gli All Blacks non le ricordavano da un pezzo: storia di epoche lontane, soprattutto di un altro millennio (quello lasciato alle spalle 22 anni fa), roba che al solo pensiero ogni tifoso Maori impallidisce, volgendo lo sguardo a quel che raccontava l’attualità legata alla più famosa compagine al mondo di rugby a 15 fino a qualche mese fa.

Ma la caduta degli dèi, a quanto pare, ha colpito la palla ovale più di quanto ci si potesse immaginare: gli All Blacks di oggi non incutono più paura negli avversari, semmai anzi li invogliano a spingersi oltre i propri limiti. E così facendo li galvanizzano a tal punto da generare in loro una voglia matta di consegnarsi alla storia con autentiche imprese, di quelle che negli ultimi 20 anni se ne sono contate davvero sulle dita di una mano.

Peccato che da 8 partite a questa parte non basta nemmeno più una mano per contare tutte le sconfitte incassate dai discendenti dei Maori: tolte le vittorie (sofferte) contro l’Irlanda nel primo dei tre test match della serie di giugno e in Sudafrica nel terzo turno di Rugby Championship, per il resto a far festa sono stati sempre e solo gli avversari.

RICAMBI NON ALTEZZA E TROPPO SOTTO PRESSIONE

Lo sport è fatto di cicli, spesso irripetibili, e quello della nazionale neozelandese è probabilmente giunto a conclusione dopo quasi 20 anni di autentica dominazione. Il problema però è che stavolta i guai non derivano dalla voglia dei giocatori di andare a monetizzare all’estero (chi sceglie di andare a giocare nei campionati europei o asiatici perde il diritto di indossare la maglia degli All Blacks), quanto piuttosto da un ricambio generazione che stenta a venire, con tanti buoni giocatori che faticano a reggere il peso della pressione che grava sulle loro spalle.

Quel bacino inesauribile di “riserve” che ad ogni convocazione pone il commissario tecnico di turno di fronte a un vasto ventaglio di scelta oggi è calato sensibilmente, e una volta comprese le difficoltà le nazionali rivali hanno saputo sfruttare appieno le debolezze di una squadra altrimenti invincibile.

Perché in fondo i neozelandesi nel nuovo millennio hanno dominato la scena senza mostrare alcun reale cedimento, se non passeggero: primi nel ranking della federazione internazionale dal 2009 al 2018 (dal 2003 vi ha trascorso l’80% del tempo in vetta: oggi è sceso al quinto posto), vincitori della Coppa del Mondo nel 2011 e nel 2015 e di innumerevoli Rugby Championship (l’equivale del VI Nations europeo, dove giocano anche Sudafrica, Australia e Argentina), hanno estremizzato il concetto di squadra imbattibile. Fino a un anno fa.

GLI ADDII ECCELLENTI, LA PERDITA DI CERTEZZE

La pandemia, evidentemente, ha finito per rompere equilibri consolidati nel tempo. La dipartita di giocatori simbolo come Richie McCaw, Dan Carter, Israel Dagg, Sonny Bill Williams, Kieran Read, Maa Nonu e altri ancora ha inoltre tolto esperienza e qualità a un gruppo che aveva saputo fare quadrato anche nei momenti più delicati. I giovani, seppur bravi, si sono ritrovati immersi in un mondo per loro troppo grande.

Ed è stato soprattutto il cambio di guida tecnica, con Steve Hansen che dopo un decennio di trionfi ha lasciato spazio al vice Ian Foster, ad aver tolto le residue certezze: benché accettato inizialmente dalla critica, Foster ha fatto fatica a gestire la fase di ricambio, affogando poi nell’incertezza di un futuro diventato di colpo torvo ben più del colore nero (iconico) della divisa.

Le sconfitte di fine 2021 contro Sudafrica, Irlanda e Inghilterra, rigorosamente tutte in trasferta, hanno contribuito ad aprire il vaso di Pandora. E l’incredibile sconfitta nella serie di test match con l’Irlanda disputata in Nuova Zelanda a giugno (dopo la vittoria nel primo match, gli All Blacks hanno ceduto nelle restanti due sfide) hanno aperto ufficialmente la crisi e finito per metter Foster già spalle al muro.

La posizione dell’head coach s’è fatta poi delicatissima dopo la sconfitta all’esordio nel Rugby Championship 2022 in Sudafrica, cui ha posto rimedio una settimana dopo con una vittoria più di nervi che di gambe. Ma il clamoroso crollo casalingo contro i Pumas dello scorso fine settimana nella sfida disputata a Christchurch ha definitivamente mostrato al mondo le carenze di una squadra che ha smarrito la propria identità più profonda.

FRAGILI COME UNA NAZIONALE QUALSIASI

In Argentina hanno gridato al miracolo, benché già nel 2020 in piena pandemia era arrivata una vittoria contro gli All Blacks (si giocava in campo neutro e senza pubblico, a Sydney). Ma forse contro questa Nuova Zelanda la vera notizia sarebbe non riuscire ad approfittare dell’insolita fragilità di chi veste la maglia nera.

Per la NZR, la federazione rugbystica locale, da due anni a questa parte nulla sembra girare per il verso giusto: prima le polemiche per la proposta del fondo americano Silver Stake di rilevare parte dei diritti commerciali del marchio All Blacks, inizialmente rifiutata (con sdegno patriottico) e poi accettata “a metà prezzo” (133 milioni anziché i 276 inizialmente offerti: è il prezzo da pagare per le perdite post Covid), poi quelle legate agli scarsi risultati, con Scott Robertson dei Crusaders arrivato a rifiutare il ruolo di Foster (se ne riparlerà dopo la Coppa del Mondo 2023) e l’ex tecnico dell’Irlanda Joe Schmidt promosso con maggiori compiti nel ruolo di assistente accanto a Foster, quasi un’investitura a prenderne il posto, forse anche subito al prossimo inciampo, qualora l’orizzonte fosse ancora tendente al nero…

 

(Credits: Getty Images)

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