UN ANNO DA RICORDARE, GIUGNO 2022: CURRY TRASCINA I WARRIORS ALL'ANELLO

Submitted by alessio.berton on Tue, 12/27/2022 - 10:49
Hero image
Autore
Redazione
news date
News di tipo evento?
No

Tornano campioni Nba i Golden State Warriors. La stagione che ha celebrato la carriera e la leggenda di Steph Curry, laureatosi (in tutti i sensi, anche in quello sui libri) miglior tiratore della storia del gioco a dicembre, e Mvp delle Finals a Giugno. Facciamo un salto a giugno, leggendo un bellissimo pezzo celebrativo della franchigia più vincente degli ultimi anni in Nba.

LA DINASTIA DI GOLDEN STATE: DOPO TRE ANNI IL DESTINO S’È RICORDATO DEI WARRIORS

Tre anni fa, nel centro di allenamento di Oakland che di lì a poco sarebbe stato abbandonato per trasferire armi e bagagli a San Francisco, l’aria che si respirava lungo i corridoi e le stanze era davvero pesante. Da qualche ora il mondo NBA aveva visto il Larry O’Brien Trophy varcare i confini statunitensi e fare tappa a Toronto, in Canada, perché un californiano di nome Kawhi Leonard aveva appena scritto una pagina di storia portando i Raptors a vincere un anello che in pochi alla vigilia della stagione 2018-19 avrebbero mai potuto pronosticare. Perché al tempo c’era una squadra che veniva attaccata sostanzialmente per il fatto di aver “distrutto” il gioco, capace di raggiungere 4 finali consecutive (sarebbero diventate 5 pochi mesi dopo) in virtù di un potenziale tecnico mai visto prima, tale da proporre un quintetto di partenza di soli all star. Vederla giocare per gli amanti del gioco era uno spasso, ma avendo “ucciso” la competizione inevitabilmente era diventata anche la squadra più odiata d’America.

E quando Toronto riuscì a portarle via il titolo da sotto al naso, beneficiando di due infortuni gravi che misero fuori gioco pedine quali Kevin Durant e Klay Thompson, in molti accolsero quello schiaffo del destino come un gesto liberatorio, una sorta di “vendetta” nei confronti di chi aveva osato fare razzia di talento e lasciare le restanti 29 franchigie con la sensazione di giocare ad armi impari. Il “karma” aveva colpito e punito la presunta arroganza di una dirigenza che non si era accontentata di aver centrato il record di vittorie in regular season del 2015-16 (73-9) e delle due Finals conquistate a metà del decennio, volendo spingersi ancora oltre con un roster di talento smodato. E quella stessa dirigenza in quei giorni di metà giugno stava cominciando suo malgrado a raccogliere i cocci che nel frattempo erano andati in frantumi, prefigurando annate durissime.
LA PARABOLA DISCENDENTE, L’OCULATA RISALITA
Le luci dei riflettori si erano spente e per riaccenderle sarebbe servito un miracolo. Perché Durant in quei giorni fece le valigie decidendo di trasferirsi a Brooklyn, dove l’avrebbero ricoperto di denari nonostante per un anno sarebbe rimasto a guardare per via dell’infortunio al tendine d’Achille. E anche Thompson, pur rimanendo alla base, per un anno almeno non avrebbe visto il parquet, complice la rottura del crociato (e la stagione successiva, a un passo dal rientro, si sarebbe rotto il tendine d’Achille: fate due anni abbondanti lontano dal campo). Restavano come icone di quel favoloso quinquennio di vittorie e delusioni (le Finals perse da 3-1 a 3-4 nel 2016 contro i Cavs di LeBron e appunto quelle del 2019 contro i Raptors) solo Steph Curry e Draymond Green, col primo peraltro gravato di più di un problema fisico nella stagione seguente, tanto che in un amen il ruolino di marcia di Golden State sarebbe precipitato dal primo all’ultimo posto della lega, passando da 57 a 15 vittorie.

Bob Myers, il general manager che aveva architettato quella squadra da sogno, era il primo a sapere che il vento per i Warriors sarebbe cambiato. E in lacrime aveva accolto gli infortuni di Durant e Thompson, chiedendosi se quei giorni di gloria sarebbero mai più tornati.

Ora dovremo dimostrare se il nostro è stato solo un ciclo di successi, o se siamo davvero una dinastia

disse davanti a staff tecnico e giocatori prima di salutarli per le vacanze. Il campo, nei 12 mesi successivi (anche 18, complice lo stop per Covid), sembrò decisamente far propendere di più per la prima ipotesi. Tanto che al draft 2020 arrivò persino una pick altissima alla numero due, dove venne scelto James Wiseman, ottimo centro segnato però nei primi due anni di carriera da qualche problema fisico di troppo. Ma senza Klay e con un roster in parte giovane e in parte acerbo (l’eterna promessa Wiggins, Poole, Bell, Looney e Payton II, cui seguiranno nell’estate 2021 Kuminga, Moody e Porter jr.) la strada verso la risalita si sarebbe rivelata assai accidentata e per nulla scontata.
CICLO O DINASTIA? LA RISPOSTA È DECISAMENTE LA SECONDA
La premessa è stata lunga, ma era debita e tale da far comprendere meglio chi legge del valore e della portata del quarto trionfo negli ultimi 8 anni da parte dei Warriors. Che da qualche ora hanno pieno diritto di essere definiti una vera e propria dinastia, tanto quanto lo sono stati i San Antonio Spurs nei primi anni del nuovo millennio (5 titoli in 15 anni) oppure i Los Angeles Lakers nella prima decade degli anni 2000 (5 titoli in 10 anni), per non scomodare i Celtics degli anni ’60 o i Bulls degli anni ’90. La vittoria in gara 6 a Boston ha chiuso idealmente un cerchio ripensando a quelle mattinate dure e intrise già di rimpianto del giugno del 2019, quando il mondo intero assisteva sostanzialmente a quella che pareva essere la fine della grande parabola di Golden State. Che invece ha saputo lavorare sottotraccia, setacciando il mercato e trovando gli ingranaggi giusti al momento giusto per ricomporre il puzzle e tornare grande in un lasso di tempo rapidissimo.

Già lo scorso anno, seppur orfani di Thompson, il ritorno ai play-off era parso un primo segnale di rinascita, al netto di un roster che prometteva bene. Indizi che avevano convinto più d’uno a rimettere GSW al centro della scena in vista dell’annata corrente, seppur i favoriti tanto a Est quanto a Ovest erano altri, con squadre come Nets, Bucks, Heat, Suns e Lakers considerate superiori. Curry e compagni le hanno sbaragliate tutte, senza mai dare l’impressione di poter realmente perdere quattro partite nella stessa serie. E hanno fatto vedere all’esterno che la flessione dell’ultima parte di regular season non era altro che figlia della consapevolezza di farsi trovare pronti quando più contava.
LA CORSA PLAY-OFF (QUASI) PERFETTA, TRA GREGARI E STAR
Perché i play-off dei Warriors hanno rasentato la perfezione. Partiti senza Curry, al rientro dopo lo stop prolungato per una caviglia sinistra malconcia che gli aveva fatto saltare un mese e mezzo di stagione dopo l’All Star Weekend, ma trovando comunque le risorse giuste per annacquare il peso della sua assenza. Così Jordan Poole ha fatto vedere di aver imparato l’arte dal maestro, senza farlo rimpiangere e anzi consentendogli di rientrare con ancora più calma e meno fretta quando la posta s’è fatta più elevata. Steve Kerr, l’architetto dell’ennesimo capitolo di storia del gioco (9 titoli NBA considerando i 5 da giocatore e i 4 da capo allenatore: un unicum assoluto nella lega), ha saputo correggere qualche piccola sbavatura in corsa e soprattutto affidare alla squadra i mezzi giusti al momento giusto per spingerla dove sapeva di voler tornare, cioè alla Finals.

E mentre le rivali perdevano pezzi, con i Lakers melanconicamente vittima dei loro sbagli di mercato e i Suns implosi sotto i colpi della fatica e di una pressione che non hanno saputo reggere, i Warriors continuavano a crescere buttando fuori dalla corsa i Nuggets (con Jokic al solito troppo isolato nella battaglia), i temibili Grizzlies, loro malgrado orfani nei momenti chiave della stella Ja Morant, quindi i Mavericks di Luka Doncic, uscito ridimensionato nel confronto contro il collettivo meraviglioso messo in piedi da Kerr. Restava solo un ostacolo da abbattere: l’imprevedibile Boston plasmata da Ime Udoka, altro allievo di Popovich (come Kerr), capace di trasformare un’annata horribilus che a gennaio li vedeva lontani dai piani alti in una cavalcata apparentemente trionfale, con una difesa di ferro e un attacco capace di esaltare anche gente sulla quale nessuno avrebbe scommesso un dollaro.
CURRY È L’MVP, E SOMIGLIA TANTO AL “SECONDO” BRYANT
Golden State è entrata nelle Finals con il favore del pronostico e puntualmente l’ha rispettato. Nonostante l’incidente di percorso nel quarto quarto di gara 1, quando una pioggia di 7 triple consecutive mandate a bersaglio dai Celtics ha permesso a quest’ultimi di ribaltare subito il fattore campo. Sembrava l’inizio di serie stregata, con Green sul banco degli imputati per qualche comportamento non sempre allineato (più dannoso che utile alla causa, a detta di molti), Thompson ancora lontano dagli standard del passato e Curry che al solito, costretto a cavarsela spesso da solo, mostrava i suoi presunti limiti nel ruolo di leader.

Dopotutto Curry non è mai stato considerato il vero X Factor di casa Warriors nelle corse agli anelli precedentemente vinti: nel 2015 il premio MVP se lo prese Iguodala per la sua difesa su LeBron nei momenti chiave, nel 2017 e 2018 i voti convogliarono tutti su Durant, con vivo disappunto di Steph che sperava in una diversa considerazione. Stavolta si è arrivati ad affermare che l’avrebbe fatto suo anche in caso di ko.: tolto il passaggio a vuoto in gara 5, maldestramente non sfruttato dai rivali, Curry ha avuto sempre e comunque la serie nelle sue mani. E ha chiuso con l’ennesimo show di fronte a un pubblico che non ha potuto far altro che applaudirlo e riconoscerne la grandezza e la superiorità, mostrata proprio nel momento più importante della sua carriera. Tanto che come ha festeggiato questo di titolo non aveva fatto con nessuno dei precedenti: è un po’ la stessa cosa che fece Bryant nei due anelli vinti nel 2009 e 2010, quelli senza Shaq, quelli che l’hanno consacrato alla leggenda.
WIGGINS È ESPLOSO, E IL FUTURO PROMETTE ANCHE MEGLIO
Se Golden State ha vinto, però, non è stato solo per Curry. L’MVP occulto delle Finals è stato Andrew Wiggins, che s’è preso una rivincita sonante pensando a quante critiche abbia ricevuto sin dai primi giorni in cui mise piede nella lega. Nel 2014, scelto alla numero 1 al draft da Cleveland, fu impacchettato subito verso Minnesota in cambio di Kevin Love, uomo più funzionale alle velleità di competitività immediata della seconda versione dei Cavs targata LeBron. Per tirarlo fuori dalla desolata Minny ci volle una trade rischiosa (ma che ha pagato) fatta da Myers nel febbraio del 2020, quando rinunciò a D’Angelo Russell spedendolo proprio ai Wolves in cambio di Wiggins. Che nella Baia è cresciuto tanto, inserendosi nel sistema Warriors come pochi altri avevano fatto prima di lui. Una scelta di prospettiva che s’è rivelata vincente proprio nel corso di una post season che ha mostrato tutti quegli indizi sulle qualità di Wiggo che negli anni di Minnesota si erano solo sporadicamente intraviste.

Un perfetto secondo violino, dal momento che Thompson è sembrato più ricoprire il ruolo di gregario (ma di lusso) e Green è andato a corrente alternata, per sua fortuna mostrando il lato migliore verso la fine della serie. Quando l’attacco di Boston s’è definitivamente inceppato, con quel dato eloquente che ha visto i Celtics perdere tutte e 4 le gare nelle quali non sono andati oltre i 100 punti. E al sistema difensivo Warriors hanno contribuito anche Looney (terzo anello per lui…), Payton II (enorme la sua crescita nei play-off) e Porter jr., ficcante in attacco quanto affidabile in marcatura. Kuminga e Moody hanno visto da vicino come si vince e sono pronti a riprendere il filo interrotto al termine della regular season, Wiseman ha dato appuntamento a dopo l’estate. Questo per dire che la dinastia non è affatto giunta a naturale conclusione: l’età media non è bassa ma garantisce altri 3-4 anni ad alti livelli (Curry 34 anni, Green e Thompson 32, Wiggins 27), e se integri e al completo i Warriors hanno ancora molto da dare e da dire. Intanto hanno risposto al quesito di Myers (ciclo o dinastia?), il quale dovrà fare ora i conti col salary cap per tenere unito il roster. Ma con un anello in più al dito si ragiona decisamente meglio.

 

(Credits: Getty Images)

Template News
Post
Fonte della news
SN4P
Sport di Riferimento
Basket