5-5-5, LA BI-ZONA DI ORONZO CANÀ

Submitted by greta.torri on Mon, 10/26/2020 - 14:08
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Marco Di Milia
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Sport e cinema: L’Allenatore nel Pallone

Un modulo che è estro, fantasia e velocità d’esecuzione. Non si parla di sofisticati Diagonal o più coriacei Catenacci, ma della spettacolare Bi-Zona del Mister Oronzo Canà. Mentre le norme generali di tutti gli allenatori del mondo, più o meno, hanno una certa prevedibilità nel quadrare le formazioni con schemi come il 4-5-1 o il 4-4-2, l’allenatore pugliese poteva stupire giocatori, dirigenza, tifoserie, spettatori e persino il pallone stesso con un suo personale 5-5-5.

Alla domanda, legittima, sulla fattibilità di 15 calciatori -16, col portiere! – in campo per mettere in pratica questa tattica di gioco, ecco che il tecnico era pronto a lanciare nel rettangolo verde il suo migliore fattore sorpresa: “Mentre i cinque della difesa vanno in avanti, i cinque attaccanti retrocedono e così viceversa. Allora la gente pensa: «Ma quelli c’hanno cinque giocatori in più?» Invece no, perché mentre i cinque vanno avanti, gli altri cinque vanno indietro, e durante questa confusione generale le squadre avversarie si diranno: «Ah! Ah! Che sta succedendo?». E non ci capiscono niente!”.

Un’avanguardia strategica impossibile da prevedere, dove i primi non capirci nulla sono proprio i giocatori stessi, con la sola certezza che una pellicola così di “rottura” come “L’Allenatore Nel Pallone” di Sergio Martino, del 1984, attraverso la sua verve caciarona ha portato sullo schermo i molti vizi e le singolari virtù del calcio italico, quello della moviola la domenica in TV e l’autoradio sempre nella mano destra. Una passione vissuta costantemente a braccetto con tachicardia galoppante e urla disumane che, quando non liberatorie, si rivelano sempre pronte a lanciare temibili sciagure a chiunque possa solo provare a intralciare il passo veloce dei nostri undici.

Lino Banfi, nei panni di Oronzo Canà, detto “la Iena del Tavoliere”, mostra il lato ingenuo del mondo del pallone, capace di non farsi impensierire troppo nemmeno dalla sua apparente inettitudine. Grass, pelato, brüt, eppure pronto a rimettersi in marcia per portare lustro alla sua scalcinatissima Longobarda. Già, perché la piccola provinciale di proprietà del Commendator Borlotti è per il ruspante allenatore il riscatto di una vita passata a guidare piccoli club. Non importa quindi se la sua è una missione suicida, quando in cambio può finalmente guardare nelle palle degli occhi, da pari o quasi, i suoi idoli, il Barone Liedholm su tutti, di cui Canà non solo tenta di imitarne la postura e il proverbiale self control – con risultati alquanto tristanzuoli – ma parlotta pure con una sua foto che gli fa da spirito guida.

Senza carisma, senza fortuna e senza soldi, i piani del Mister vanno presto a rotoli mentre imperterrito, lancia la sua personale sfida al massimo campionato con una rosa di brocchi da antologia: Sella e Cavallo, come pure Magrini, Meloni, D’Amelio, Speroni e Crisantemi il panchinaro, acquistato ai primi di novembre. Ma Canà in mezzo allo sfacelo di cui involontariamente si circonda riesce a prendere sul serio il suo ruolo, restando lì, fermo in prima linea a vedere il disastro della classifica e la rabbia dei tifosi, giornata dopo giornata, nonostante il presidente Borlotti l’abbia voluto nel team proprio per questo: disporre di un allenatore così scarso da far tornare la squadra subito in B ed evitare i costi eccessivi della Serie A.

Nella prestigiosa sede dell’Hotel Gallia di Milano, all’apertura del calciomercato, Borlotti salta perciò di stanza in stanza per distruggere la competitività della sua squadra, con Canà invece elettrizzato di conoscere in anteprima i nuovi assi da schierare in campo. L’obiettivo è di ampliare l’organico senza cedere per nessun motivo i giocatori di punta Falchetti e Mengoni. Pupilli che per Platini offre immediatamente. Un accordo raggiungibile con l’acquisto della metà di Giordano, da girare poi all’Udinese per ¼ di Zico e ¾ di Edinho. Ma l’interesse per Platini è solo un depistaggio, perché il presidente ha in mente Rumenigge, in cambio dei soliti Falchetti e Mengoni, che in ogni caso vengono subito ceduti per i ¾ di Gentile e i 7/8 di Collovati più la metà di Mike Bongiorno (c’è di mezzo Berlusconi) per raggiungere una fantasmagorica comproprietà di Maradona, disponibile però in formazione solo dopo tre anni, lasciando così la Longobarda con un pugno di mosche in mano.

Il disastro di mercato tuttavia permette al tecnico di prendere in mano la situazione e partire alla volta del Brasile alla ricerca di una giovane promessa capace di dare lustro alla Longobarda. Se il Catania aveva in effetti ingaggiato in modo simile Pedrinho e Luvanor, o la Pistoiese si è così accaparrata il temibile bidone Luis Silvio Danuello, anche Canà, al pari di molti altri coach prima di lui, vola quindi in Sudamerica a scovare il suo campione. Non torna però in Italia con Éder e Jùnior, né tantomeno con il mitico Sócrates, ma con un molto più economico Aristoteles, promettente calciatore pescato in un campetto di periferia a Rio.

Oronzo Canà è entrato così, puro e infiammabile, nel serissimo mondo pallonaro dei grandi numeri, capace di farsi intervistare da Aldo Biscardi, di “picchiare” Picchio De Sisti, perdere 7 a 0 contro il suo Liedholm e farsi deridere da Ciccio Graziani sulla sua pelata – mancanza tricotica – che poi, quasi per una risposta sincera del karma, caratterizzerà Graziani negli anni a seguire – cercando perennemente di stare a galla, malgrado una serie infinita di sonore scoppole inferte da Fiorentina, Ascoli, Udinese, Milan e molte altre ancora in un campionato che sembra già segnato.

Stretto tra un presidente disonesto, un bomber affetto da saudade, una moglie petulante e pure una figlia ogni volta depressa (almeno fino all’arrivo del carioca Aristoteles), il povero allenatore non può permettersi distrazioni nel suo impegnativo compito, a dispetto anche della dura realtà che lo circonda, fino a una rimonta impossibile fatta di cuore, scaramanzia e un pizzico di avventata stupidità che nel calcio non guasta mai troppo. Un ribaltone inaspettato che finirà sia per dargli un’iniezione di fiducia, che per costargli il posto e molto probabilmente qualcosa delle sue preziose parti intime – La frase “Mi avete preso per un… eroe!” ce la ricordiamo un po’ tutti, in effetti.

Più che un film, un fenomeno di costume entrato per direttissima nella mitologia del pallone. La comicità è quella tipica di Banfi, sregolata e istrionica che, tra i saltelli in panchina e un’asciugata di “chepa” e l’altra, parla il linguaggio papale papale del bar dello sport, presentando il punto di vista, grottesco, delle società sportive alle prese con le loro strategie, dentro e fuori il campo di gioco, molto prima che scandali e corruzione arrivassero in prima pagina. Sergio Martino, con una sceneggiatura semplice, delinea in questo modo l’Italia degli anni Ottanta del calcio, di arbitri cornuti e di mezzi sinistri, offrendo allo schermo la domenica degli italiani, divisi nella fede tra Nils Liedholm, Platini, Maradona e Rumenigge, con tanto di illustri camei offerti da Graziani, Ancelotti, Zico, Galeazzi, Biscardi e dalle epiche telecronache di Nando Martellini.

Un mondo di nostalgia calcistica e risate di grana grossa da piccolo grande cult, da rivedere ancora oggi, poco importa se in streaming, dvd o in vhs (se mai se trovasse ancora qualcuna in circolazione), che con quelle azioni un po’ raffazzonate prese direttamente dalle gare della Sanbenedettese – la maglia bianca della Longobarda non a caso era un espediente di budget per riciclare il più possibile immagini di repertorio – fa ancora sobbalzare dalla poltrona, tra improperi, maledizioni e gioia incontenibile. In più, Oronzo Canà non è un personaggio di completa fantasia perché prende spunto dal battagliero mister Oronzo Pugliese, allenatore di diversi club (anche Roma, Bologna e Fiorentina) che negli anni Sessanta divenne celebre con il nomignolo di “Mago di Turi” per aver sconfitto contro ogni pronostico la grande Inter di Herrera con il suo piccolo Foggia.

Così, se in quel 1984/85, il campionato, dopo la favola della Società Sportiva Longobarda, è stato davvero vinto da una “provinciale”, il Verona, il nostro calcio schierava realmente una parata di star senza pari, tanto da essere considerato “il campionato più bello del mondo”. E dove, se non in Italia, potevano giocare in una sola stagione mostri sacri come Maradona, Platini, Zico, Falcao, Passarella, Rumenigge, Boniek, Laudrup, Cerezo, Zenga, Baresi, Tardelli e Rossi, così come il leggendario Aristoteles, la perla nera capace di centrare una rete con ogni palla passata tra i piedi, nonostante l’appartenenza a una squadra perfettamente sgangherata.

A partire dal suo allenatore, sempre pressato dalla stampa: “È stata tutta colpa di quel gol a freddo, diciamo!” “Ma il primo gol l’avete fatto voi!” “Appunto! Noi eravamo freddi, questi erano caldi e incazzeti”.

 

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