KOBE BRYANT | UN ANNO SENZA BLACK MAMBA

Submitted by greta.torri on Tue, 01/26/2021 - 10:15
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Greta Torri
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No

366 giorni sono passati da quel maledettissimo 26 gennaio 2020. Ricordo esattamente cosa stavo facendo quando lessi la notizia. Ricordo di essermi bloccata e nella mia testa ronzava solo un “No. Non può essere. È una bufala, deve essere una bufala”.
E invece era tutto vero, ma oggi, a distanza di un anno, ancora mi sembra tutto assurdo, o forse, più semplicemente, non lo accetto e non lo accetterò mai.


Quel maledetto 26 gennaio 2020, insieme a Kobe, Gianna e ad altre sette persone, è morta anche una parte di tutti quelli che amano non solo il mondo del basket, ma quello dello sport.

Kobe Bean Bryant nasce il 23 agosto 1978 a Filadelfia. Figlio di Joe Bryant, giocatore di basket che militò sia in NBA che in squadre italiane: per questo Kobe arriva nel nostro Paese nel 1984, seguendo la carriera del padre a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e infine a Reggio Emilia.
Durante la sua permanenza nello stivale prende quella che è stata la decisione che non avrebbe mai potuto evitare: diventare un professionista.

È determinato a giocare in NBA e, nonostante ci fosse un oceano a dividerlo dal suo grande sogno, lui non si abbatte. I parenti gli spediscono le videocassette con le sfide di Magic Johnson e Larry Bird e non le guarda per diletto, ma per studiare i grandi di quello sport analizzando i passaggi di Magic, i tiri di Bird e facendo sue quelle giocate. Una cosa è chiara per Kobe, anche lui avrebbe fatto parte della storia della pallacanestro e si diventa grandi, imparando dai migliori.

Nel 1991 torna negli Stati Uniti e anche se all’inizio non è poi così semplice integrarsi in un nuovo paese, Kobe non si lamenta: ha il suo rifugio personale – la palla a spicchi – e non gli serve altro. Si iscrive all’High School dove fa un gran tesoro di quello che ha imparato in Italia. Come ha dichiarato lui stesso “Quando sono tornato in America, tutti gli altri ragazzi sapevano fare un sacco di giochetti imparati nei playground, ma non avevano i fondamentali. Io invece li avevo e ad imparare quei trucchi ci ho messo poco.” E infatti vince il torneo statale, batte il record di punti nel quadriennio liceale che apparteneva a niente meno che a Wilt Chamberlain e si guadagna una fama a livello nazionale. Nel 1996, ancora non maggiorenne, decide che è arrivato il momento di fare il salto di qualità nel mondo dei grandi e rendersi, quindi, eleggibile al Draft NBA senza passare per il college. Viene scelto come numero 13 assoluto dai Charlotte Hornets, ma subito dopo viene ceduto ai Los Angeles Lakers. Da qui, inizia la storia del Campione.

Esordisce il 13 novembre 1996 contro i Minnesota Timberwolves diventando il debuttante più giovane nella storia della NBA, ma senza segnare punti. È solo l’anticipo di una stagione tutt’altro che memorabile. Kobe, neanche a dirlo, non si scoraggia. Stava solo registrando gli ultimi ingranaggi di quella macchina perfetta che comincerà a macinare punti già dal secondo anno. I primi 30 punti arrivano a dicembre 1997 nella gara contro i Dallas Maverick e sono decisivi per la vittoria Lakers (104-87). Tre giorni dopo ne mette a referto 33 contro i Chicago Bulls di Michael Jordan (che in quella gara ne segna 36). Non a caso i giornalisti cominciano a paragonarlo proprio al numero 23 più famoso al mondo dichiarando che lo stile di gioco di Kobe somiglia molto a quello di MJ e infatti, è proprio così.

In Jordan, Kobe non trova un rivale, ma un amico, un fratello maggiore. MJ si rivede in quel ragazzino curioso ed appassionato e gli dà molti consigli. Consigli di cui Kobe farà tesoro.


Nella sua meravigliosa carriera, Kobe vince 5 titoli NBA (2000, 2001, 2002, 2009, 2010), 2 medaglie d’oro alle Olimpiadi (2008 e 2012), per non contare poi i record individuali: il più giovane giocatore dell’All Star Game (19 anni e 175gg), il più giovane a vincere lo Slam Dunk Contest (18 anni e 175gg), il giocatore che ha realizzato più canestri all’All Star Games (115), uno dei due giocatori della storia della NBA ad aver segnato 50 o più punti in 4 gare consecutive e l’unico ad aver segnato almeno 600 punti nella post season per tre anni consecutivi (2008,2009,2010). E se questo non bastasse, è stato anche un vero campione fuori dal parquet: il 4 marzo 2018 ha vinto il Premio Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione per “Dear Basketball” ispirato alla sua lettera d’addio al basket.

L’abbiamo visto passare da Rookie a Campione Vero, abbiamo vissuto il rapporto complicato con Shaquille O’Neil, abbiamo sofferto per le sue battaglie legali, l’abbiamo visto diventare Black Mamba, l’abbiamo visto vincere, l’abbiamo visto anche perdere, abbiamo assistito a gare storiche, abbiamo sudato con lui per l’anello, l’abbiamo celebrato MVP, l’abbiamo visto diventare padre e allenare sua figlia Gianna intenta a seguire le sue orme nel basket. Il suo rapporto speciale con Gianna sta tutto nella risposta che diede a chi gli suggeriva di mettere in cantiere un figlio maschio che potesse raccogliere la sua eredità sul parquet: “Ho Gianna per questo”.

L’abbiamo anche ammirato per il suo impegno nel sociale, abbiamo visto l’uomo oltre la super star, l’abbiamo visto dare l’addio al basket e poi, purtroppo, abbiamo vissuto anche quel maledetto 26 gennaio 2020.

Quel giorno, a Calabasas, delle famiglie hanno perso i propri cari. Padri, mariti, figlie, sorelle…


E il mondo dello sport ha perso una delle sue stelle più luminose.
Quel maledetto 26 gennaio abbiamo capito perché si dice che una leggenda non muore mai. Nessuno di coloro che ne hanno seguito la parabola umana e sportiva mentre si compiva lo scorderà. Ma anche le generazioni future, almeno quelle che ameranno il basket, conosceranno il Black Mamba. Per tutto ciò che ha fatto sul campo e per ciò che ha lasciato, per la sua irriducibile, contagiosa attitudine vincente:


“Mamba Mentality significa semplicemente provare ad essere la miglior versione di te stesso. È questo che significa quella mentalità. Significa provare a migliorare ogni giorno, è una ricerca continua, è una ricerca infinita”.

È stato un privilegio aver vissuto al tempo di Kobe Bryant, averlo visto giocare e l’aver pianto per il suo addio al basket ha fatto capire che il Mamba aveva ancora davvero tanto da dare, quindi perdonatemi se non riuscirò mai ad accettare quel MALEDETTO 26 GENNAIO.

(Credits: Getty Images)

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