L’AMERICA DEL DIVIN CODINO

Submitted by greta.torri on Thu, 05/27/2021 - 08:45
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Marco Di Milia
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L’estate del 1994 si è rivelata una delle più torride mai vissute in Italia. Perfino quando il ronzio indifferente di un ventilatore provava a muovere un’aria che le immagini trasmesse oltreoceano non avrebbero mai potuto mitigare.

Il 17 luglio 1994, dal Rose Bowl di Pasadena andava in scena l’ultimo atto di una squadra arrivata alla finale del Mondiale con le unghie e con i denti, ma anche con l’estro e la tenacia di un gruppo di giocatori che non ha mai concesso troppi spazi alle critiche. Il fischio d’inizio era programmato alle 12,30 per esigenze televisive, quando il termometro era fisso sui 36 gradi e il 70% di umidità e l’Italia stava per conoscere, impotente quel misto di afa, malinconia e improperi che avrebbero caratterizzato la partita contro il Brasile di Romario.

Si era arrivati fin lì oltre ogni previsione, inanellando nella fase a gironi una sconfitta, una vittoria e un pareggio. I pronostici sembravano tutti dire il contrario, eppure arrivarono gli ottavi, i quarti e pure la semifinale, grazie alle intuizioni di Roberto Baggio, su rigore, su azione manovrata, su volteggi imprevedibili e ascese incontenibili, finendo, ognuna, per diventare una corsa a mille verso l’ultima sfida. Il Divin Codino non era al massimo delle sue condizioni atletiche, con un tendine che continuava a fare i capricci, ma si era fatto forza, per continuare la propria avventura e far sognare il mondo come tutti gli altri numeri 10 che la sua maglia tanto importante si portava in eredità.

“Questo è matto!”, aveva reclamato quando il ct Sacchi decise di farlo uscire per permettere l’ingresso di Marchegiani dopo l’espulsione di Pagliuca. La sua riscossa partì da lì, per trovare contro Nigeria, Spagna e Bulgaria quella combinazione di fantasia, forza, rabbia e velocità che lo avevano reso unico. Per ritrovare se stesso e il suo Mondiale.

In quell’ultima sfida però, quel maledetto muscolo contratto rimase un nemico con cui dover fare i conti, ben oltre i 90 minuti regolamentari e pure oltre l’extra time. Le gambe non lo reggevano più, ma avvertiva forte il peso di quel momento in cui il sogno avrebbe potuto prendere finalmente forma. Avrebbe chiuso i conti con una storia fatta di sacrificio, impegno e anche di critiche. Si presentò davanti a Taffarel per il rigore. E lì, in un attimo, prese forma il più acuto dei dolori.

Privando l’America del suo portento.

 

(Credits: Getty Images)

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