1960 – IL PODIO CHE NON ESISTE PIÙ

Submitted by greta.torri on Fri, 06/11/2021 - 09:37
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Marco Di Milia
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In principio c’era il sogno di un ex arbitro, Henry Delaunay, che desiderava un torneo per unire quell’Europa che guerra e ideologie erano riuscite a dividere con certosina attenzione tra muri e barricate.

Il primo fischio di inizio del Campionato Europeo arriva così tra mille diffidenze nel 1960. L’idea aveva trovato l’interesse di 17 squadre, ma alla fase conclusiva non sono previsti né gruppi, né fasi a gironi, in gara ci sono unicamente 4 squadre: due semifinali e una finalissima, nient’altro.

Per contendersi la prima Coppa Delaunay, un trofeo di 10 kg in argento e base in marmo, arrivano quindi Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia e Francia. Tra Est e Ovest del Vecchio Continente i rapporti iniziavano lentamente a sbloccarsi, ma erano ancora molte le ritrosie verso un progetto che non aveva incontrato i favori di molte delle grandi protagoniste del calcio europeo. In mancanza di Germania, Inghilterra e della stessa Italia, un po’ timorosa di rimediare un’altra figuraccia dopo il Mondiale del 1958, il baricentro del gioco si sposta quasi del tutto oltre cortina, dimostrando come il pallone stesse iniziando a dettare nuovi schemi.

Assetti tattici riformulati, preparazioni atletiche più accurate e, soprattutto, una maggiore attenzione nella forma fisica degli atleti, impongono un terzetto che, a sessant’anni esatti da quel trionfo rappresenta oggi un mondo che ha smesso di esistere. Unione Sovietica, Jugoslavia e Cecoslovacchia infatti, nell’ordine di conquista di quel primo podio europeo, sono una triade di squadre che la storia ha fatto scomparire tra sconquassi e crepe mai davvero sanate, sfaldando formazioni monumentali capaci di perpetuare a suon di gol un mito di unità nazionale alquanto scricchiolante. L’URSS del portiere eroe della Patria, nonché Pallone D’Oro, Lev Yashin e di Valentin Ivanov è crollata al pari del Muro di Berlino, e così pure la Jugoslavia, annientata dalle sue stesse tensioni, e la Cecoslovacchia, che invece ha preferito divedersi amichevolmente in due entità separate e distinte.

Un tumulto avvenuto quasi all’unisono che in pochi anni non solo ha trasformato il volto politico e sociale dell’Europa, ma ha mutato anche il calcio stesso, rendendo quell’Europeo del 1960 un pezzo da museo praticamente impareggiabile. All’epoca il torneo cercava di trovare un nuovo equilibrio sui rettangoli di gioco laddove era saltato qualunque fondamento diplomatico, non solo provando a siglare una rinnovata distensione in un campionato aperto a tutte le nazionali europee, ma anche andando a impattare, inconsapevolmente, sulla grande traversa dei corsi e ricorsi storici.

Quel podio rappresenta così un’immagine ormai sbiadita di un’Europa che provava a ripartire soprattutto da sé stessa, mettendo in mostra la sua migliore prova di forza. Sessant’anni fa a spuntarla sui contendenti furono infine i Sovietici, nelle loro divise con quella mitica sigla CCCP, che in cirillico indicava “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, in bianco su fondo naturalmente rosso, pronti a portare in campo la propria baldanza atletica che sembrava non potesse essere seconda a nessuno. In finale, al Parco dei Principi di Parigi, contro l’altrettanto agguerrita Jugoslavia, va in scena uno scontro calcistico fatto di corsa, lanci profondi e gioco veloce. Gli slavi sono giovani e motivati, i danubiani rocciosi ed esperti: a segnare la rete del vantaggio è Galić, ma la risposta non tarda a farsi attendere con Metreveli che raggiunge il pareggio appena 6 minuti dopo. Il resto è una gara di tecnica e nervi saldi e l’URSS dimostra di averne a sufficienza fino ai tempi supplementari.

Quell’exploit però non si ripeterà più perché l’ostica formazione con la falce e il martello raccoglierà nelle successive edizioni degli Europei ben tre secondi posti prima di un’ultima partita con Cipro in vista di un Euro ’92 che non giocherà mai per cedere il passo alla storia. Quel tempo era ormai finito e il calcio, insieme alle circostanze di un impero in rovina, avrebbe preso nuove imprevedibili traiettorie.

(Credits: Getty Images)

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