LA DINASTIA MALDINI: DRITTA AL CUORE DI MILANO

Submitted by marco.dimilia on Mon, 09/27/2021 - 17:53
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A Trieste, quasi un secolo fa, venne gettato il seme per una delle dinastie più uniche e iconiche che il mondo del calcio abbia mai raccontato. Una storia legata da un filo rossonero, che a distanza di 67 anni è tornato a rifiorire nel giorno in cui un giovanotto di nome Daniel ha riportato la famiglia Maldini al centro della scena.

L’INIZIO DEL MITO

Cesare, nato il 5 febbraio 1932 nel rione Servola, non sa che nel suo destino c’è un pallone da far rotolare su un campo verde: muove i primi passi nella Triestina (e dove altrimenti) e in città si accorge di lui un uomo che si farà chiamare “El Paron”, un burbero che all’anagrafe risponde al nome di Nereo Rocco, che lo porta in prima squadra e lo ritroverà qualche anno più tardi al Milan, andando a scrivere una pagina di storia in un pomeriggio di maggio del 1963, quando alzeranno (primi italiani a farlo) la Coppa del Campioni sul prato di Wembley. Mediano e terzino prima, difensore centrale e libero poi, elegante e senza troppi fronzoli, Cesare è la classe fatta in persona: di poche parole, ma mai fuori posto, ottiene il rispetto di un’intera generazione di calciatori e addetti ai lavori. Per lui viene coniato anche un termine: dicesi “Maldinata” una giocata fatta con eccessiva sicurezza, tale da procurare un bel problema per i compagni (e magari regalare un gol agli avversari). Ma la sua visione pioneristica è un’investitura anche per un futuro luminoso da allenatore: Rocco lo vuole al suo fianco e lui cresce bene alla sua ombra, dalla quale si discosta già a metà degli anni ’70 per andare a farsi le ossa in giro per l’Italia (Parma, Foggia, e Ternana). Nel 1980 però è la chiamata della FIGC a cambiargli la vita: entra nei quadri tecnici federali e dopo aver messo in bacheca il Mundial 1982 da vice di Bearzot prende in mano da Azeglio Vicini la guida dell’Under 21, che in un decennio porterà per tre volte sul trono d’Europa. Il mondiale di Francia 1998 gli volterà le spalle ai rigori nell’unico grande appuntamento in cui dirige la nazionale dalla panchina. Alle soglie dei 70 anni farà in tempo a tornare al Milan e regalarsi un clamoroso 6-0 all’Inter (11 maggio 2001) prima di un concedersi un ultimo viaggio mondiale sulla panchina del Paraguay nel 2002. Nel frattempo, però, già da più di un lustro c’era chi ne aveva raccolto il testimone in famiglia.

PIÙ GRANDE DEL PADRE

Quando Paolo viene alla luce il 26 giugno 1968 ha già tre sorelle maggiori ad aspettarlo. È il cocco di casa, raccontano che l’aveva sempre vinta lui, ma il calcio non era il primo dei suoi pensieri. Anche se ci sapeva fare, tanto che Inter e Milan se lo contesero alla fine degli anni ’70. Scelse il Milan più per vocazione che per convinzione, nonostante il peso di quel cognome che l’avrebbe accompagnato per tutta la carriera. Quando Liedholm lo fece esordire in A per necessità in un pomeriggio di gennaio del 1985 a Udine (mica lontano da Trieste), con la neve a bordo campo e il freddo che entrava nelle ossa, molti pensarono al solito “raccomandato” messo lì per fare un po’ di rumore. E invece chi aveva visto giocare Paolo sapeva che in quel ragazzo mingherlino c’era un potenziale anche superiore a quello espresso dal padre. Liedholm, che aveva giocato per anni con Cesare, lo allevò come un secondo padre. E quando, nel 1987, arrivò Sacchi, Maldini (ormai titolare indiscusso) dovette mettere a posto solo le cose extra campo, con l’Arrigo nazionale che arrivò persino a consigliargli quale fidanzata lasciare e quale prendere per la vita. La maturazione mentale di Paolo fu tale che da quel momento in poi il mondo conobbe il terzino più forte degli anni ’90, che sarebbe poi diventato capitano, leader nonché difensore centrale di impareggiabile grandezza di una delle squadre più forti e longeve che la storia del calcio ricordi. Esempio di lealtà e correttezza, dotato di uno spessore morale fuori dal comune, tanto da non tirarsi indietro neppure quando c’era da rispondere a chi accusava lui e i compagni per una partita nata bene ma finita male (la maledetta notte di Istanbul 2005). Vince praticamente di tutto, solo la nazionale gli nega la gioia di un titolo che pure avrebbe meritato, lui che vive tutte e tre le eliminazioni degli anni ’90 ai rigori e chiude nell’inferno di Seul del 2002. Nei suoi 24 anni da calciatore Maldini ha riscritto le storia, proseguendo e anzi contribuendo ad arricchire il lavoro cominciato da papà Cesare una trentina di anni prima. Ma una dinastia che si rispetti non può fermarsi al secondo capitolo.

IL FUTURO HA UNA STRADA TUTTA NUOVA

Il terzo è oggi affidato a un millennial, perché Daniel è nato l’11 ottobre 2001. Dieci giorni dopo il Milan di papà Paolo gli avrebbe regalato la prima gioia rossonera, battendo 4-2 l’Inter nell’unica notte di gloria della fugace era Terim. Daniel ha un fratello maggiore, Christian, di 5 anni più grande, che come lui avrà il Milan nel destino, arrivando a militare nella Primavera ma senza mai sbarcare sul suolo della prima squadra. Daniel però sembra avere qualcosa in più: intanto gioca in avanti, come centrocampista offensivo o seconda punta, e questa per la famiglia Maldini è una novità non da poco. E poi un pizzico di buona sorte lo fa capitare nel Milan di Pioli dove per i giovani c’è sempre tanto posto, un po’ per necessità dettate dalle linee guida aziendali, un po’ perché il tecnico non si fa troppi scrupoli quando c’è da buttare un volto nuovo nella mischia. Allenarsi con un big del calibro di Ibrahimovic lo aiuta a crescere e maturare in fretta e quando capita l’occasione per zittire tutti quelli che pensano che lì ci stia solo per meriti pregressi attribuibili a chi l’ha preceduto non se lo fa ripetere due volte, infilando di testa la porta dello Spezia sotto gli occhi di un commosso papà Paolo. A 20 anni, Daniel sa che nessuno gli regalerà nulla. Ma ha scelto di affrancarsi un po’ dal passato, provando a seguire la sua strada: non indossa il numero 3 (lui, che è un Maldini, potrebbe farlo), la maglia numero 27 gli piace e gli sta d’incanto. Come a nonno Cesare e a Paolo, che lo segue con occhi affettuosi, ma sempre lucido nelle analisi e coerente col ruolo di direttore tecnico che ricopre. In tre hanno sfondato il muro delle 1000 presenze complessive col Milan: la missione di Daniel potrebbe essere quella di rimpinguare il bottino di reti, dato che giocando più vicino alla porta avversaria le occasioni non mancheranno. Se poi dovesse rivelarsi anche altrettanto vincente, i tifosi milanisti saprebbero già che li attende un futuro meraviglioso.

(Credits: Getty Images)

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